Il Misantropo è un’opera teatrale in cinque atti, scritta da Molière (1622/1673) nel 1666 e portata per la prima volta sulla scena al Théâtre du Palais Royal di Parigi nel 1667. Questa pièce nasce in un momento buio della carriera del commediografo francese, seguito alla messinscena del Tartufo (1664) e del Don Giovanni (1665), entrambe opere delle quali furono interdette le pubbliche rappresentazioni per lo scandalo suscitato tra i devoti.
Lo spirito con cui il teatrante affrontò la stesura di questa nuova commedia fu quindi quello di un uomo deluso dalla società in cui vive, da cui, tuttavia, non riesce ad affrancarsi definitivamente. L’autore ha rappresentato il proprio disagio nella figura del protagonista, Alceste, ma anche nell’amico Filinte, carattere opposto e complementare al primo. Mentre Alceste vorrebbe cambiare il mondo, ma, vista la tragica impossibilità di realizzare tale proposito, opta per la fuga, l’altro vi si adegua con un atteggiamento di rassegnato cinismo. Alceste e Filinte sono, dunque, due aspetti di una medesima personalità controversa, quella dello stesso Molière. La prima scena della commedia vede i due amici confrontarsi in un acceso dibattito sull’ipocrisia che regola i rapporti tra gli uomini, di cui Alceste si dichiara intransigente oppositore. I difetti odiosi al protagonista non sono meno evidenti nella donna di cui è innamorato, Célimène, perché la ragione non regola l’amore; tuttavia l’unica possibilità perché esso si realizzi è per Alceste convincere l’amata a rinunciare alle proprie discutibili abitudini. Di fronte all’insuccesso di questa impresa, il protagonista, complice anche un insuccesso giudiziario, decide di ritirarsi a vita solitaria. Pure la donna, però, fallisce nel tentativo di utilizzare le sue doti seduttive per integrarsi in un mondo che non le appartiene, ovvero quello dell’aristocrazia. Questo adattamento, in scena a Bruxelles al Théâtre de la place des Martyrs, si attiene al testo originale, di cui conserva anche il verso alessandrino, ma consta di una messinscena che concilia classico e moderno, teatro d’immagine e teatro concettuale. Obiettivo del regista Daniel Scahaise non è realizzare una rilettura atipica dell’opera, ma tornare alle sue origini, facendola propria, prima di riproporla allo spettatore in una nuova veste. Nella società che ha voluto rappresentare il drammaturgo i ruoli sono ben delineati, così come in questa rappresentazione, che inizia, non a caso, con un ballo in maschera. Gli attori recitano su una piattaforma pendente, in cui fluttuano, diventando, poco a poco, sempre più instabili. Le loro identità, incerte e vuote, si manifestano con la rimozione delle maschere e il conseguente svelamento dei limiti di una società fondata unicamente sull’apparenza. Ad accentuare questo senso di vanità è il corridoio di specchi disposti diagonalmente sulla scena, in cui gli attori si riflettono costantemente durante la rappresentazione. Sul filo dell’instabilità è anche l’incertezza fra tragico e comico che caratterizza la pièce e su cui il regista fa leva in questa rappresentazione, aspetto ben valorizzato dalla buona interpretazione degli attori.