Giorgio Gaberscik, in arte Gaber (1939 – 2003), è stato un intellettuale fra i più lucidi e preveggenti fra quelli vissuti nel secolo scorso. Come altri creatori, ad esempio Pier Paolo Pasolini (1922 – 1975), ha coniugato l’attività creativa – nei campi della canzone d’autore e del teatro – con il saper cogliere i segnali delle trasformazioni che stavano avvenendo nella società, riuscendo a prefigurare il modo in cui l’Italia si sarebbe presentata da lì a qualche decennio.
Assieme a Sandro Luporini (1930) ha inventato spettacoli basati sull’alternanza di canto e monologhi, il cosiddetto teatro canzone, che nel corso del tempo si è trasformato in ventaglio di soli brani recitati, magari con il supporto di qualche sottofondo musicale. Andrea Scanzi propone, in Gaber se fosse Gaber, una sorta di lezione – riassunto della vita e dell’opera di quest’artista. Ne ripercorre le tappe creative e politiche dall’impegno iniziale, sino alla delusione degli ultimi tempi. Oltre che il quadro preciso di duna società in lento, inarrestabile degrado è la radiografia di una generazione che ha visto crollare le speranze e gli ideali di cui si era nutrita negli anni verdi. Non è un caso se uno dei suoi ultimi album s’intitola La mia generazione ha perso (2001). Lo spettacolo ha un forte tono didascalico e propone una lettura - di parte ma motivata – del percorso artistico e politico di questo importante artista, uno fra quelli che più hanno segnato la seconda metà del novecento.