La scena di Dopo la battaglia, l’ultimo spettacolo di Pippo Delbono, è un soffocante perimetro di reclusione. Muri alti, di un grigio inquietante, si proiettano apparentemente infiniti verso l’alto, mentre tre porte blindate separano dall’esterno. E’ lui stesso, in Dopo la battaglia – scritti poetico-politici (Barbes editore, 2011), a svelare la suggestione che sta alla base della scelta scenografica: in questo spazio grigio (…) vedo un luogo fisico di detenzioni, di prigionia, di isolamento, e anche un luogo mentale, di chiusura della mente, incapace di trovare una libertà, una lucidità. Il palco-prigione, dunque, è uno spazio mentale. Manca – ed è quasi superfluo sottolinearlo – l’accomodante convenzione della quarta parete, sostituita dalla distesa di sguardi di chi osserva immobile il pericoloso andirivieni dei corpi guidato dal regista-domatore.
Sguardi prigionieri, li si potrebbe definire con qualche concessione all’enfasi, ma di chi? Innanzitutto dei fantasmi di un artista dichiaratamente perso in un mondo – l’Italia di oggi - dominato dalla schizofrenia e dalla paura dell’altro: vedo pensieri malati fuori e dentro la mia testa, e la testa di noi tutti, pensieri chiusi, pensieri bui, asfissianti. L’esperienza a cui è sottoposto lo spettatore è quella di un viaggio nella follia, una penetrazione visionaria negli angoli più oscuri della società e dell’inconscio. Il cuore è il rimosso collettivo e individuale, tutto ciò che viene allontanato perché terrorizzante, l’incubo interiore che i fulminei squarci di ironia rendono ancora più sinistro, più minaccioso. Nel calderone delboniano è possibile trovare qualsiasi cosa: una ballerina in tutù lanciata in una danza disperata, il Macbeth di Giuseppe Verdi, le coreografie di Pina Bausch, una Madonna in carne ed ossa che fatica a passare dalle porte, il tricolore, un mimo tarantolato, filmati sgranati con i migranti che affollano il Mediterraneo e persino la madre del regista, da poco scomparsa. Come nell’ormai mitico Urlo (2004), si punta all’accumulo di immagini, di suoni, di note, di frammenti video e di movimenti dissonanti, compressi e contaminati fino a creare un’impressionante tempesta allucinatoria, trasfigurazione dichiarata dei drammi di un paese destinato al naufragio – e forse già naufragato da tempo. La drammaturgia è perciò sfrangiata, ridotta a brandelli di scrittori e poeti (Antonin Artaud, Franz Kafka, Alda Merini e Pier Paolo Pasolini, tra gli altri) rielaborati per l’occasione. Le parole e la musica del violinista rumeno Alexander Balanescu (ma anche di Elis Regina, Henri Salvador, Maria Salgado e Irène Jacob) fanno da filo conduttore, da traino, sospingendo letteralmente i singoli blocchi e animando i contorcimenti cui sono costretti i membri di una compagnia di teatranti sempre più diseguale e clownesca, vera e propria corte dei miracoli fuori dal tempo (lo spettacolo, non a caso, è dedicato a Bobò, l’anziano sordomuto cresciuto in manicomio e da anni suo complice sul palco). Nella grigia prigione si consumano così i rantoli terminali di un immaginario che fonde alchemicamente l’opera e il pop, la risata sguaiata e lo shock, il sublime e il triviale, l’innocenza e la sordidezza, il cinema e la grande tradizione teatrale, la politica dei burocrati di provincia e il lamento del nobile poeta solitario, il ricordo del recluso e la disperazione del combattente. Straordinario Barnum funebre, processione laica tra la memoria ammuffita del passato e l’orrore del presente, Dopo la battaglia è un’esplosione di energia drammaticamente effimera, uno schiaffo che non può lasciare indifferenti e costringe a riflettere sulla precarietà e le contraddizioni disumane dell’esistenza. E’, in sintesi, l’ennesima confessione di un artista che, schiacciato dall’incombenza della fine, sente ogni volta il bisogno di trascinarci nel caos della sua – e della nostra - mente in subbuglio.