Inghilterra, giorni nostri. Una giovane donna (Isabella Ragonese) viene accusata di aver ucciso i suoi due figli. Il fatto provoca un immenso clamore, suscitando l’interesse morboso di stampa e televisione. La madre di lei (Francesca Mazza), politica in ascesa, tenta in tutti i modi di gettare acqua sul fuoco, conducendo tra mille equilibrismi la campagna per la propria rielezione. Un giornalista sessuomane (Matteo Angius) indaga nella confusione generale, mentre un luminare della psichiatria (Pieraldo Girotto) avanza l’ipotesi che a causare gli omicidi sia stata una misteriosa sindrome che spinge ad uccidere per eccesso di protezione materna. L’assoluzione per insufficienza di prove porrà fine al caso, lasciando però sull’intera vicenda l’ombra lunga del sospetto.
Taking care of baby è dunque una tragedia contemporanea dagli echi euripidei, la storia di una Medea spogliata del fascino del Mito e, soprattutto, dell’aura drammatica conferita dalla certezza inoppugnabile della colpa. Ispirato ai casi di Sally Clark e Angela Cannings, il testo del drammaturgo inglese Dennis Kelly, rappresentato nel 2007, si presenta come una tortuosa ricognizione nell’ambiguità, una ricerca del vero in quel mare di ipotesi contrastanti nel quale tendono a sprofondare tutti i gialli balzati improvvisamente all’attenzione dell’opinione pubblica ma condannati a non avere una soluzione chiara e definita. La struttura è quella dell’inchiesta, con la voce di un oscuro intervistatore a isolare i singoli personaggi, dialogando con loro passo per passo sino a ricomporre una faticosissima indagine ricostruttiva dall’esito inevitabilmente fallimentare. Alla complessità della pièce (un assemblaggio di interviste, confessioni, monologhi e dialoghi serrati che rispecchia la coralità e la varietà delle testimonianze) corrisponde quella della messinscena di Fabrizio Arcuri, tra le più coraggiose viste quest’anno nei teatri genovesi. Il regista romano, fondatore dell’Accademia degli Artefatti e direttore artistico della Tosse, punta infatti alto e va spesso a segno. Nel tentativo di ricreare il caos di un grande circo in cui la violenza inquisitoria dei media si intreccia con la lacerazione interiore del singolo, ridisegna lo spazio teatrale e cortocircuita i vari piani narrativi, grazie soprattutto all’ausilio di proiezioni di immagini su schermo, sia dal vivo sia da filmati pre-registrati. Il palco perde così staticità, la quarta parete viene abbattuta, gli attori attraversano la platea facendo saltare la barriera invisibile tra pubblico e realtà ricostruita, una telecamera montata su un carrello attraversa la scena puntando i volti degli attori e persino la postazione della regia, con le consolle e i computer, è bene in vista. Il risultato è uno spettacolo ambizioso e non troppo omogeneo, retto però da un cast in gran forma (brava Isabella Ragonese, eccellente Pieraldo Girotto) e da soluzioni visive tanto discutibili quanto incisive.