Thomas Ostermeier è l’enfant terrible del teatro tedesco, il regista che più di ogni altro ha fatto parlare di sé dopo la riunificazione della Germania. Nato a Soltau in Bassa Sassonia nel 1968, dopo gli studi alla rinomata Ernst Busch Hochschule ha iniziato un complesso percorso di esplorazione della drammaturgia europea, sviluppando uno stile progressivamente sempre più ardito e inconfondibile. Da David Harrower a Sarah Kane, da Mark Ravenhill a Lars Norén, tutti i principali scrittori di teatro contemporanei hanno trovato una sistemazione ideale nel suo violento immaginario, caratterizzato da spazi stranianti, luci al neon, esplosioni rock e nervosismi attoriali.
Anni di rischiose e coerentissime scelte artistiche gli hanno inizialmente attirato forti critiche in patria (di esterofilia, in particolare), salvo poi condurlo alla direzione dello Schaubühne di Berlino nel 1999 e al Leone d’oro alla Biennale Teatro di Venezia nel 2011. Susn, prodotto dal Münchner Kammerspiele, segna il suo incontro con il mitico Herbert Achternbusch, geniaccio iconoclasta noto in Italia grazie alle messinscene di Valter Malosti. Alla base dello spettacolo vi è una serie di materiali eterogenei, monologhi tratti da racconti e copioni cinematografici opportunamente riadattati. Protagonista è appunto Susn (la straordinaria Brigitte Hobmeier), archetipo della donna tragica devastata dall’insensibilità del mondo e dalla crudeltà del maschio (incarnato dal sempre muto Edmund Telgenkämper). La sua storia, lungo un arco temporale che abbraccia i primi turbamenti dell’adolescenza e il decadimento fisico della menopausa, viene raccontata in cinque quadri distinti, all’interno di uno spazio teatrale occupato da un maxischermo su cui scorrono grigi e indistinguibili flash di campagne e città tedesche. Da ragazzetta ingenua nella provincia bucolica, la vediamo trasformarsi in studentessa cittadina immersa in fantasticheria sessuali, quindi in amante infelice di uno scrittore egoista e infine in vecchia ubriacona: un declino morale e fisico, insomma, che ha nell’alcol l’inevitabile conclusione. Il risultato è perciò un flusso di coscienza spezzato in più parti, stazioni di una via crucis al femminile in cui l’ossessione religiosa, la sensualità malata, l’insoddisfazione esistenziale e l’incomunicabilità tra i sessi si fondono pericolosamente tra sprazzi di ironia sulfurea e molta crudeltà. Cupo e decadente, lo spettacolo è una manifestazione di talento che lascia francamente senza fiato. Tutto rasenta la perfezione. Sorprendente è l’equilibrio tra le laconiche immagini video sullo sfondo e i movimenti degli attori, impressionante è il crescendo virtuosistico della recitazione e ammirevole, soprattutto, è il modo in cui il regista gestisce la frammentarietà tortuosa della scrittura drammaturgica, infarcita di autentiche perle aforistiche. Un trionfo.