Non è elegante, né molto interessante per il lettore, iniziare la recensione di uno spettacolo teatrale con una valutazione personale. Consentitemi, per una volta, di violare questa regola affermando subito di essere uscito deluso da La nonna (La nona, 1977) l’opera che Giorgio Gallione, uno dei registi più interessanti della scena italiana, ha tratto dal testo dell’argentino Roberto Tito Cossa (1934).
Una prima osservazione riguarda il copione, lo stesso da cui nel 1979 Héctor Olivera trasse un film che ebbe un certo successo anche grazie all’interpretazione del divo José Soriano. In quegli anni l’Argentina era oppressa dalla dittatura della junta militar capeggiata dal generale Jorge Videla (1925) che si era impadronita del potere dopo aver esautorato il governo di María Estela Martínez (Isabelita) de Perón (1931). Furono anni terribili in cui i militari si segnalarono come i golpisti più sanguinari nella storia del paese latino – americano. Anche se nessuno è mai riuscito a calcolare esattamente quanti fossero i desaparecidos, il loro numero si stima non inferiore a 15 mila. Uomini e donne arrestati, torturati e uccisi senza alcuna parvenza di legalità, spesso in modo barbaro. In questo clima non stupisce che un testo in cui alcuni personaggi scompaiono misteriosamente e la protagonista pensa solo a mangiare, sia stato considerato, anche dai censori golpisti, come un’opera di alto valore metaforico, allusiva delle condizioni del paese. E', dunque, un testo importante, ma strettamente collegato a un preciso momento storico. Si può riproporre oggi sono seguendo, nella sostanza, una di queste strade: facendone una sorta di rievocazione – testimonianza o attualizzandolo nel profondo. L’errore del regista è stato quello di non scegliere nettamente una di queste ipotesi, cullandosi nell’illusione che per renderlo vivo fosse sufficiente rincorrere alcune labili similitudini fra l’Argentina di ieri e l’Italia di oggi. Intendiamoci, il parallelo poteva benissimo essere fatto, ma allora sarebbe stato necessario rimanipolare a fondo il testo, mantenendone l’essenza, ma cambiandone radicalmente la forma. Lo spettacolo che ci viene proposto, invece, appare troppo rispettoso del copione per parlarci dell’oggi e troppo lontano nei costumi e la scenografia dell’ieri per essere proposto come rivisitazione del passato. Questo suo essere né carne né pesce mina la forza simbolica alla radice, consegnandoci una prova professionale degna di rispetto, soprattutto sul versante degli interpreti, ma assai lontana dalla feconda originalità che sappiamo nelle corde di questo regista. Come si suole dire: sarà per la prossima volta.