Il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828 – 1906) scrisse Hedda Gabler nel 1890. Gli studiosi inseriscono quest’opera fra i cosiddetti drammi sociali che pendono l’avvio con Samfundets støtter (I pilastri della società, 1877) e ci chiudono con il copione di cui stiamo parlando. Sono testi da cui traspare una forte sensibilità per le figure femminili e, più in generale, per i temi legati al ruolo della donna in una società molto maschilista.
La protagonista di questo dramma è una donna dalla struttura mentale complessa che, per raggiungere libertà e indipendenza, non esista a servirsi cinicamente degli altri sino a spingere al suicidio un ex – amate, con la debolezza dell’alcol e della deboscia, precipitato nella disperazione dopo aver perso, nel corso di una notte di bagordi, l’unica copia di un suo importante manoscritto. Tuttavia la protagonista stessa naufragherà esistenzialmente in un finale chiuso da un colpo di pistola. Molti dei temi agitati sul palcoscenico appaiono datati, validi più come testimonianze storiche che non quali argomenti tuttora importanti. Antonio Calenda, nel riopporre quest’opera, è andato sul sicuro con una pattuglia di attori professionalmente precisi, fra cui spicca Manuela Mandracchia duttile e abile. La stessa scenografia, funzionale e semplice, non eccelle in originalità se non nella sistemazione, al fondo del palcoscenico, di un grande ritratto maschile. E' l'immagine di un funzionario in divisa e medaglie, debitamente arcigno e ufficiale: il generale Gabler, padre della protagonista. Un elemento scenico che ricorda, dalla prima all’ultima battuta, chi sono i veri padroni della società in cui si muove Hedda. Dall’insieme di questi elementi emerge uno spettacolo segnato da una grande professionalità, ma da una assai minore originalità di lettura.