My Fair Lady è forse il musical in lingua inglese più noto presso il pubblico italiano. Ispirato al Pigmalione (1913) di George Bernard Shaw, scritto da Alan Jay Lerner e musicato da Frederick Loewe, fece il suo esordio al Mark Hellinger Theatre di New York nel marzo 1956, con Rex Harrison e Julie Andrews protagonisti assoluti. Tra i maggiori trionfi della storia di Broadway e del West End londinese di allora, lo spettacolo riprendeva con minime variazioni la commedia del premio Nobel irlandese, grande satira sulle differenze di classe dell’Inghilterra di Edoardo VII. Al centro, l’incontro tra la povera fioraia Eliza Doolittle, figlia dell’ubriacone Alfred, e Henry Higgins, un misogino professore di fonetica che, affascinato dall’orrido accento cockney della ragazza, scommette con l’amico Pickering di trasformarla in una vera signora.
La nuova messinscena prodotta dal Teatro Sistina e diretta dal regista-impresario Massimo Romeo Piparo – uno dei massimi successi di botteghino della stagione in corso - ha l’intelligenza di mantenere inalterato lo spirito brioso del musical e rispettarne l’iconografia iper - stilizzata, restituendo al pubblico le ben più che familiari atmosfere tanto dello spettacolo originario quanto del pluripremiato film di George Cukor datato 1964 (otto premi Oscar, tra cui Harrison miglior attore). Con un’accuratezza quasi filologica, ritornano perciò il mercato di Covent Garden popolato da fioraie e carrettieri, la corsa di cavalli di Ascot con le dame in abito bianco e i gentiluomini in tuba e frac grigi, ma soprattutto lo studio tutto libri e marchingegni di Higgins, in cui, tra una cantilena ossessiva e un esperimento fonetico, si consuma gran parte dell’azione. Gli attori, paludati nei costumi edoardiani d’ordinanza, si calano brillantemente nel clima di revival, impegnandosi innanzitutto a restituire con precisione tutta la complessità della partitura musicale e la raffinatezza dei testi (felicemente ritradotti e liberati dalle macchinosità che tanto avevano penalizzato il doppiaggio del film). Il confronto con la tradizione si trasferisce dunque sul piano della recitazione. Se il vecchio Aldo Ralli fa scintille con il suo papà Doolittle recuperando la gestualità e persino l’assurdo berretto di Stanley Holloway (primo ad incarnare il ruolo sul palco e poi al cinema), Luca Ward e Vittoria Belvedere si discostano sensibilmente dal canone stabilito dai protagonisti originari, tentando – missione assai complicata - di far emergere le proprie personalissime caratteristiche recitative senza snaturare i personaggi. Il primo, in particolare, storica voce di Russell Crowe e attore solitamente impassibile, mantiene il cappello floscio e la giacca di tweed, ma si discosta dall’eleganza disinvolta di Harrison affrontando le canzoni con un’energia molto virile, ai limiti del ringhioso, e attraversando il palco con falcate furibonde e impazienti. La seconda invece, schiacciata dal confronto impossibile con la Audrey Hepburn protagonista della versione cinematografica, la butta spesso sul buffonesco, accompagnando con fortissima ironia la trasformazione in gran signora di Eliza. Intorno a loro si muove un gruppo affiatato di cantanti e ballerini, spina dorsale di uno spettacolo equamente suddiviso tra le arguzie dialogiche riprese dalla commedia di Shaw e numeri musicali talmente celebri da trasformare l’inevitabile effetto déjà vu di chi conosce a menadito il film in una sorta di piacevole ripasso. Il risultato finale è un My Fair Lady decisamente scanzonato, rispettoso del glorioso passato cine-teatrale, ma tutt’altro che bolso e impolverato. Un musical ancora tutto da godere e riscoprire, insomma, lasciando da parte paragoni impossibili.