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Aldo morto – tragedia Aldo morto – tragedia Hot

Aldo morto – tragedia

Cast, Crew, Infos - Teatro

Titolo originale
Aldo morto – tragedia
Autore
Daniele Timpano
Interpreti
Daniele Timpano.
Luci
Dario Aggioli, Marco Fumarola
Compagnia
amnesiA vivacE con il sostegno di Area06, in collaborazione di Cité Internationale des Arts – Comune di Parigi

Un bel mattino ci sveglieremo e capiremo che siamo morti: così cantava Claudio Lolli nel 1973 e così troviamo scritto in esergo nell’edizione a stampa di Aldo morto, il dissacrante monologo di Daniele Timpano meritoriamente ospitato dal Cantiere Campana nell’ambito del progetto sulle nuove realtà teatrali italiane. Una citazione a metà tra il presagio iettatorio e il rimando alla cronaca, che introduce l’ultimo atto di una trilogia sui morti eccellenti capaci – in vita e non solo – di determinare il corso dei primi centocinquanta accidentatissimi anni del nostro paese. Nel volume Storia cadaverica d’Italia, pubblicato da Titivillus nel 2012, sono, infatti, raccolte tre mummie regali, tre nobili salme utilizzate come arieti per disintegrare le mitologie laiche su di esse erette, nonché come mappe consunte su cui rielaborare con foga iconoclasta altrettanti periodi storici: quella di Giuseppe Mazzini (1805 – 1872) in Risorgimento pop, quella di Benito Mussolini (1883 – 1945) in Dux in scatola, e infine quella di Aldo Moro (1916 – 1978) in Aldo morto.

Timpano - nato a Roma nel 1974, da sempre interprete e regista di ogni suo testo – ama dunque giocare col fuoco. Il suo ultimo spettacolo, che lo vede protagonista di un tour de force recitativo di quasi due ore, prende le mosse da uno dei più drammatici fatti del secondo dopoguerra italiano: il rapimento dello statista democristiano da parte delle Brigate Rosse il 16 marzo 1978. A questo crimine seguirono, com’è noto, cinquantacinque giorni di prigionia e l’esecuzione, il 9 maggio, con il corpo simbolicamente ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 in via Caetani, tra le sedi di Dc e Pci. Da lì, dalla sparizione dell’ideatore del Compromesso storico, prende articolazione con distratta disinvoltura (Vabbè, niente d’importante sono le prime parole) un racconto il cui scopo primario è la decostruzione sistematica e inarrestabile delle retoriche e l’eliminazione di tutte le muffe – politiche, culturali e giornalistiche – che hanno modellato la memoria collettiva dell’evento. La tronfia sicumera del narratore dal pulpito in possesso di una versione incontestabile da elargire magnanimamente lascia qui il posto al procedere nervoso, quasi nevrotico, per strappi e salti logici, di un anti-narratore stralunato apparentemente perso in un frammento di Storia che non ha vissuto con consapevolezza (aveva tre e mezzo all’epoca, ci viene ricordato all’inizio) e che non può di conseguenza conoscere se non di riflesso, in conformità a materiali tanto eterogenei e caotici quanto parziali e fallaci. I santini, i feticci e le verità ufficiali implodono dunque a ritmo implacabile, all’interno di un processo di sabotaggio sarcastico e ribaltamento costante. A cominciare dall’Io dell’attore-drammaturgo che, nella furia evocativa e nell’accumulo di situazioni, temi e personaggi, si sfalda, penetrando (e sdoppiandosi) in identità lontane, senza che lo spettatore riesca a prevedere gli scarti improvvisi. Sfilano così il figlio di Moro che racconta stentatamente il privato anonimo e le abitudini del padre, i reporter microfonati e ottusi alle prese con la scena del sequestro in via Fani, gli artisti e gli intellettuali che hanno scritto o teorizzato sullo psicodramma repubblicano negli anni (abbattuti in fretta e senza pietà), l’ex brigatista Adriana Faranda (trasformata in una coatta compiaciuta delle vendite del suo romanzo) fino al carbonaro Renato Curcio (sproloquiante sulle note di Eros Ramazzotti: rischiosissima ma indicativa iperbole). Sguazzando coscientemente incosciente – ossimoro necessario - nel calderone della Storia, Timpano scimmiotta e sfotte, ridimensiona e indaga, recrimina e interroga, fa conflagrare l’alto e il basso, mitragliando il pubblico con parole, sigle, citazioni e stralci di canzonette: tutte testimonianze di un passato incartapecorito e sbiadito, ridotto ad ambigua pergamena, le cui uniche certezze non sono, in fondo, che i cadaveri. L’Affare Moro diventa così un contenitore, un perimetro all’interno del quale recuperare e ricollegare percorsi (dalla fondazione delle Brigate Rosse alle incongruenze e omissioni della ricostruzione post-processuale), ma soprattutto sezionare un paese intero e, al contempo, il suo pericolante passato e il suo sinistro presente. Alla fine di questa lunga e spesso esilarante autopsia, l’ambiguità della Storia resta inalterata (non sarà certo un teatrante, si ripete più volte, a fare chiarezza) e l’effetto Alka-Seltzer è fortunatamente evitato dall’instabilità dello sghignazzo e da un’angoscia serpeggiante che salvano il monologo sia dalla rigidità tipica di molto teatro di narrazione sia dalla possibile deriva cabarettistica. Per lo spettatore, al ruttino catartico, preludio agli applausi più scroscianti, si sostituisce perciò il disagio di chi, entrato in sala per partecipare a un rito scenico con valenza funebre e memoriale, si trova a uscirne interdetto e zuppo a causa di un’inaspettata e violentissima doccia scozzese. Un disagio salutare, risultato di un’esperienza teatrale certamente discutibile, ma, per una volta, degna di essere vissuta fino in fondo, e senza autocensure o preconcetti.

 

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opinioni autore

 
Aldo morto – tragedia 2013-01-19 09:57:42 Umberto Rossi
Giudizio complessivo 
 
7.0
Opinione inserita da Umberto Rossi    19 Gennaio, 2013
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