Le commedie shakespeariane sono potenzialmente letali. Racchiuse in strutture rigide, affollate da cori di comari, nobilastri e amanti smarriti, costruite su giochi di specchi e trovate ai limiti del farsesco (tra la tradizione classica e la novellistica italiana), rimangono, a distanza di secoli, materiale teatrale di difficilissima gestione. Attirati dalla risata di Sir John Falstaff, dai battibecchi de La bisbetica domata, dalle fantasmagorie de La tempesta o dai sottili giochi di seduzioni incrociate di Pene d’amor perdute, i registi – compresi i più scafati – sprofondano infatti sistematicamente nel caos di nomi, vendette private, traffici e travestimenti, lasciando lo spettatore a contare sulle dita della mano i vari Bassanio, Tranio, Solanio e le varie Olivia, Titania e Rosalinda, in attesa di agnizioni rivelatrici (e liberatorie).
Non può quindi che essere accolto con piacere il Doppio inganno diretto da Marco Lorenzi per la compagnia torinese Il Mulino di Amleto, prima messinscena italiana di un testo a lungo dibattuto, emerso nel Settecento ad opera di Lewis Theobald (1688 – 1744) come adattamento del Cardenio di William Shakespeare (1564 – 1616), appunto, e John Fletcher (1579 – 1625), e infine attribuito, a partire dal 2010 e nella perplessità generale, al solo Bardo di Stratford-upon-Avon (1564-1616), del quale è diventato la commedia perduta, il gioiello letterario nascosto ancora avvolto nel più fitto mistero. La vicenda, ispirata a un episodio del Don Chisciotte di Cervantes, è ambientata in Andalusia. Partito per offrire i suoi servigi a corte, Julio (Alessandro Marini) promette di sposare Leonora (Barbara Mazzi), nonostante le titubanze di suo padre Camillo (Lorenzo Bartoli) e l’ostilità di quello di lei, Bernardo (Gianluca Gambino). Puntualmente nefasto, entra in scena il folle Henriquez (Raffaelle Musella), figlio del Duca, il quale, dopo aver abusato di Violante (Maddalena Monti), tenta Leonora, convincendo Bernardo a cedergliela in moglie. Il matrimonio sventato dal ritorno di Julio sarà però solo l’inizio di una serie di rovesci che coinvolgeranno tutti i personaggi, fino all’intervento risolutivo di Rodrigo (Luca Di Prospero), fratello maggiore di Henriquez. E dunque fughe, serenate sotto la luna, guerre familiari, camuffamenti: il materiale, al solito, è debordante, e Lorenzi lo affronta con intelligenza, giocando con i registri, sfrondando la fauna shakespeariana, arginando i mille rivoli digressivi nei quali si può sfaldare un testo teatrale elisabettiano e incanalando il racconto sul solco dello scontro tra padri e figli. Ne scaturisce non tanto un rondò sentimentale tutto calzamaglie, mantelli sul volto o saccocce di monete tintinnanti, quanto un intrico di passioni incontrollate e conflitti violenti, proposto allo spettatore attraverso la cruda concretezza di un palco privo di orpelli scenografici, sorta di cantiere dominato da assi di legno su cui gli attori balzano, corrono e si affrontano in contese verbali pronte a trasformarsi in duelli, zuffe o amoreggiamenti improvvisi. Determinanti, in questo senso, il massiccio ricorso all’immaginario cinematografico (molto forte soprattutto l’influenza di Emir Kusturica e azzeccate le schitarrate del Neil Young di Dead Man in sottofondo) e la vitalità del cast, capace di sostenere i ritmi concitati di un turbinio di intrighi regalando risate e sghignazzi. Esempio di teatro fisico, povero di mezzi ma ricco di inventiva, questo Doppio inganno vale perciò come antidoto alla pesante solennità dello Shakespeare più imparruccato e polveroso, e ha il merito di introdurre al pubblico un testo ancora largamente sconosciuto con la forza di intuizioni rischiose ma sempre coinvolgenti. Poco importa, alla fine, chi sia davvero l’autore della commedia.