L’Odissea dei ragazzi è un progetto che viene da lontano. Alla base dell’ultimo spettacolo di Laura Sicignano – finora il più delicato da affrontare in questa stagione del Cantiere Campana – c’è infatti un laboratorio teatrale ideato dalla stessa regista e dall’avvocato Laura Traverso e incentrato sul tema del viaggio omerico, che ha visto il coinvolgimento di alcuni minori stranieri ospiti delle strutture genovesi Samarcanda e Tangram. Un esperimento targato Teatro Cargo, in parte didattico e non privo di difficoltà concrete, che ha però permesso a questi ragazzi – molti dei quali richiedenti asilo e protezione nel nostro paese - di raccontare, forse per la prima volta, la propria odissea personale. Ne è scaturito uno spettacolo figlio, come ha sottolineato Umberto Rossi in riferimento alle prove aperte di questa primavera, di una lettura prevalentemente basata sui corpi e i movimenti degli attori, impegnati a infondere energia a una rappresentazione capace di ricreare i punti nodali del testo di partenza (la tela di Penelope, gli scontri fra Telemaco e i Proci, Circe e le sue arti magiche, il canto delle sirene, il ritorno a Itaca) attraverso una scansione in quattordici quadri costruiti su singole soluzioni sceniche (su tutte, il pneumatico d’automobile a rappresentare l’occhio di Polifemo).
Chiamati dalla regista a rivitalizzare le tappe ben note di un racconto archetipico su un palco sgombro illuminato da luci soffuse, i giovani non-attori – sostenuti dalla brava Sara Cianfriglia, interprete di tutti i personaggi femminili - si trasformano in veicoli di una furia incosciente e generosa, corpi che saltano, corrono e danzano con il dinamismo dei ballerini freestyle e che talvolta si scontrano con la rabbia esplosiva delle gang di strada. Accenni improvvisi di rissa, scatti sgraziati e lampi di violenza vengono inscenati con spontaneità naif, soffocati all’apice della tensione e affiancati a momenti di calma assorta – di galleggiamento, quasi – o ad altri addirittura comici, in una sorta di lunga coreografia ritmata da una rischiosa colonna sonora che passa dal flamenco all’hip-hop con disinvoltura. Il viaggio, più che banale metafora, si fa dunque cuore e scopo ultimo, con una doppia penetrazione parallela nella tradizione letteraria da ricostruire e, soprattutto, nel mondo interiore dei cinque ragazzi, le cui storie, opportunamente lasciate da parte in sede di riscrittura drammaturgica, sembrano però materializzarsi nella concentrazione nuova dei volti, nell’attenzione al dettato registico e, più in generale, in una volontà di riscatto artistico che stupisce e commuove. Il risultato è un turbinio di accenti esotici, musica e nervi, un vero e proprio rito iniziatico attraverso cui il vissuto degli interpreti riesce a farsi teatro attraverso le suggestioni eterne del racconto omerico.