A teatro può non esserci nulla di più affascinante della confusione organizzata. Richiede talento però, affiatamento, e una conoscenza dei ritmi del palcoscenico che solo in pochi possono permettersi di vantare. Paolo Rossi e la band di liscio balcanico I Virtuosi del Carso sono tra questi, e il loro L’amore è un cane blu è perciò di quegli spettacoli che restano a lungo nella memoria – e soprattutto nelle orecchie. Arduo definirne con precisione la natura. Recital? Narrazione con inserti musicali? Cabaret intellettuale? Forse la formula più corretta è ancora quella di antimusical sociale, utilizzata dallo stesso attore-regista-autore per classificare i celebri spettacoli che lo lanciarono definitivamente tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta.
Nel mentre c’è stata poi la ricca stagione delle riletture di classici (da Rabelais a Molière), che lo ha visto mettere a punto una forma particolarmente libera di teatro di resistenza, aperto alla commistione sempre variabile di monologhi e siparietti cantati e suonati, e caratterizzato soprattutto da un’interazione continua con il pubblico, chiamato a partecipare in maniera più o meno incisiva alla riuscita della serata. La sua ultima fatica sembra dunque figlia di questa lunga esplorazione delle possibilità d’intrattenimento del teatro colto opportunamente – e maliziosamente - abbassato: una rilettura sbilenca dell’Alcesti (1907) di Rainer Maria Rilke (1875 – 1926), è provata di fronte agli spettatori per definire una volta per tutte i materiali da utilizzare in un ipotetico film ancora in pre-produzione. Al centro, la vicenda di un comico intenzionato ad attraversare il Carso per strappare dalle grinfie della Morte una giovane sacrificatasi, il giorno delle nozze, per salvare il neosposo condannato ad essere risucchiato nell’Ade, ma naturalmente, a contare, più che i personaggi evocati di fronte al leggio dal comico originario di Monfalcone (qui dunque impegnato a ripercorre la geografia della sua infanzia), è tutto ciò che ruota intorno e intramezza il racconto, tutto ciò che si muove e accade su un palco trasformato in spazio caotico, in happening apparentemente infinito e imprevedibile, mentre persino l’intervallo si fa spettacolo, con il casting improvvisato per aspiranti attori seduti in sala e la distribuzione di un indefinito minestrone. Sospinto da una musica incessante e affiancato da un sonnecchiante cane con fiocco blu al collo, il teatrante canta e monologa con esiti spesso devastanti (memorabili lo sketch del Viagra e la lunga disquisizione con delle mucche parlanti circa il miglior sistema economico-produttivo possibile nella società del futuro), confermando ancora una volta una capacità di affabulazione ormai seconda solo a quella del suo padre spirituale Dario Fo. Ad accompagnarlo in questo irresistibile spettacolo di amore e ricordi, I Virtuosi del Carso, band apolide in grado di passare dai ritmi folli della musica zigana (da segnalare la bravissima violoncellista-cantante croata Mariaberta Blaskovic) agli squarci sonori del southern rock più duro.
