La prima produzione del Teatro Stabile riporta sui palchi genovesi la tragedia per antonomasia, il prodotto forse più alto della cultura teatrale greco-antica: l’Edipo tiranno di Sofocle. Giallo ante litteram, proposto qui in un’ardita traduzione del poeta-drammaturgo Edoardo Sanguineti, racconta il tormentato percorso verso la conoscenza del sovrano di Tebe che, spinto dai vaticini dell’oracolo di Apollo a cercare il responsabile della pestilenza che sta devastando la città, si scoprirà responsabile unico, causando la propria rovina.
Paludato sotto il velo ocra che ricopre Tebe e scandito dalle musiche suggestive di Andrea Nicolini, lo spettacolo diretto da Marco Sciaccaluga ha tutte le virtù di una buona messinscena improntata a rispetto della struttura drammaturgica e cura formale, ma anche tutti i difetti di un teatro solenne e vagamente didattico, rassicurante nella sua placida magniloquenza, in cui il testo viene sottoposto allo sguardo del pubblico come una sorta di stele immutabile (nonostante le molte libertà sintattiche e lessicali della traduzione), e non come materia incandescente da riplasmare al fine di recuperare – nuovo e al contempo eterno - il cuore di un dramma senza tempo. La terribile storia dell’investigatore che si scoprì colpevole, tragedia in cui l’ansia di scoperta si intreccia all’hybris terminando con un auto-accecamento che assurge a metafora esistenziale definitiva nella sua dolorante e plastica evidenza, viene qui calata in una scenografia (di Jean-Marc Stehlé e Catherine Rankl) dominata da un gigantesco e spettrale albero secco, intorno al quale i personaggi si contorcono come scimmie in una giungla devastata da un’improvvisa e ingiustificabile siccità. La città è dunque trasformata in un desolato villaggio indiano, con il Coro ridotto al corpo stanco di un vecchio, interpretato da Eros Pagni. Edipo ha invece le sembianze di Nicola Pannelli, arrogante e nervoso capo villaggio dagli abiti impolverati e gli occhi spiritati di Toshiro Mifune ne Il trono di sangue di Akira Kurosawa: un protagonista che ci appare schiacciato dal presentimento, capace solo di divincolarsi di fronte ad un’autocondanna inesorabile opponendo all’evidenza della propria colpa risate roche e sprezzanti. Ambientazione esotica e finezze sparse a parte, si procede con il pilota automatico, senza picchi: l’imponenza della scenografia finisce infatti col rendere statica l’azione, mentre il regista sembra soprattutto impegnato a dirige con coerenza il traffico interno di un gruppo affiatato di ottimi professionisti, e il tutto scivola via verso una riuscita complessiva che nulla aggiunge e nulla toglie al dramma di Sofocle. Alla fine, per curioso paradosso, l’inesorabilità di una tragedia dall’esito “già scritto” diventa la prevedibilità di uno spettacolo dallo svolgimento già visto.