Per un teatrante, regista o attore che sia, l’affrontare un classico costituisce sempre una prova ardua, chiusa fra due pericoli: ripetere idee e messe in scena già codificate, quindi inutili, oppure spingere la fantasia sino al sovvertimento di tutto ciò che è stato praticato sino ad ora. Il primo merito di Gabriele Vacis nell’affrontare una nuova versione de I rusteghi (1760) di Carlo Goldoni (1707 – 1793) è proprio nella misura in cui si muove fra rispetto del testo e sua attualizzazione.
La proposta, ribattezzata Rustegi – I nemici della civiltà, mescola testo a improvvisazione, dialogo con la platea a invenzione moderna. Il tutto sullo sfondo di una scenografia molto particolare, con gli oggetti di scena mossi a vista dagli stessi attori e impachettati nel cellofan, come si usa fare per certi divani delle case piccolo borghesi. Quella della forza propulsiva della borghesia trasformata in sterile conservazione è uno dei puntelli di una regia che mira apertamente a marcare il passaggio di un’epoca, ben sintetizzata da un enorme rinoceronte, anch’esso fasciato come un salotto, che compare e scompare nell’ultima scena. In quest’orizzonte le bizzarrie, la grettezza, le chiusure di Lunardo, Maurizio, Simon e Canciano diventano il simbolo di una classe che ha esaurito la sua forza propulsiva. Allo stesso modo la scelta di far recitare gli attori anche in panni femminili, escludendo la presenza di attrici, aggiunge una nota di positiva ambiguità a una lettura che mira a farsi orizzonte globale, sia sociale sia psicologico. In poche parole è uno spettacolo di grande forza, divertente e inquietante a un tempo.