Paolo Poli non ha certo bisogno di presentazioni. Fiorentino, classe 1929, ha attraversato il secondo dopoguerra italiano con spettacoli dai toni comici e surreali, sempre anticonformisti e scorretti, caratterizzati da una matrice profondamente letteraria (Palazzeschi, Parise e Gozzano tra i tanti, non tralasciando Anna Maria Ortese) e da strutture a numero tipiche del teatro di rivista. Con Aquiloni propone una sorta di viaggio, sarebbe forse più corretto dire passeggiata, nella poesia di Giovanni Pascoli (1855 – 1912).
Il senso è intuibile già dal titolo: l’aquilone, gioco d’infanzia di un’Italia perduta, diventa qui l’allegoria vaga di una scrittura poetica inafferrabile e aerea, capace di ricreare le mille suggestioni di un paese rurale non ancora devastato dalle brutture della guerra. L’attore e regista, fautore di un teatro dichiaratamente anacronistico nei modi e nei tempi scenici, si immerge nell’immaginario pascoliano, costruendo due atti dal ritmo fluido (o monocorde, a seconda della sensibilità della spettatore) nei quali la recita integrale dei componimenti tratti dalle varie raccolte del poeta si alternano a siparietti sottilmente kitsch, con l’attore spesso en travesti intento a cantare (in playback) un campionario di canzonette retrò che spaziano da Guantanamera a Tripoli, bel suol d’amore, mentre intorno a lui si muovono quattro attori danzanti e declamanti dai volti incipriati. Il filo che tiene insieme il tutto è esilissimo, quasi inesistente: si ha spesso la sensazione di assistere ad un recital mascherato da vaudeville colto, una specie di ammiccante cabaret senile interamente basato su equilibrismi verbali sfiancanti (due ore di poesia recitata a perdifiato, tra un vuoto di memoria e uno sghignazzo), in cui la parola di Pascoli viene liberata e rovesciata sul pubblico senza argini o mediazioni – non essendoci una struttura narrativa portante a definirne l’andamento – per poi essere abbassata con precisione sistematica dal controcanto di musiche del tempo andato, giocosamente riarrangiate all’organetto e utilizzate non tanto per contestualizzare le singole poesie quanto per colorare i vari quadri. Chiuso tra i paesaggi di campagna disegnati da Emanuele Luzzati, lo spettacolo si rivela così un divertissement spensierato ed evanescente come l’istrionismo del suo stoico creatore, amatissimo da un pubblico – giustamente – disposto a perdonargli le esitazioni del corpo acciaccato e l’affievolirsi di un’ispirazione che sembra aver lasciato definitivamente il campo ad un’autoironia ben poco compiaciuta, ripiegata sì sul passato, ma senza troppi piagnistei nostalgici. Teatro causticamente proustiano, insomma: un ossimoro che è tutto un programma.