Luigi Maio (1965) è uno dei maggiori esponenti del Teatro da camera, che lui preferisce definire Teatro sinfonico. E’ un modo di costruire spettacoli in cui il recitato ha lo stesso peso del musicale. Ne è un esempio questa Commedia da camera in cui hanno uguale cittadinanza i versi della Divina Commedia di Dante Alighieri (1265 – 1321), le musiche di Niccolò Paganini (1782 – 1840), Franz Liszt (1811 – 1886) e dello stesso interprete.
In questo caso il testo dantesco diventa poco più che un tessuto di accompagnamento alla partitura musicale. I brani recitati fanno parte dei canti dell’Inferno e preferiscono personaggi come Caronte, Minosse, Cerbero, con tanto di contorno di lussuriosi e golosi, per finire con Ulisse, letto non tanto come uomo irrequieto alla perenne ricerca del sapere, quanto come un superbo che pone se stesso oltre ogni cosa. E’ questo uno dei punti di divergenza con altre letture dantesche come, fra le più recenti, quelle proposte da Roberto Benigni. Questo anche per la preferenza che Luigi Maio dà al lato gotico, oscuro, orrorifico dello scenario infernale, dimostrando di prediligere un panorama tenebroso popolato di ombre minacciose, rispetto a una lettura che metta maggiormente in luce gli aspetti umani delle figure citate nel poema. Non è un caso che questo spettacolo non dia spazio, ad esempio, a personaggi come Paolo e Francesca, spesso al centro di altre evocazioni dantesche. Un’ultima nota riguarda la destinazione della proposta che, nelle note di accompagnamento, cita espressamente il pubblico scolastico. A chi scrive, è capitato di assistere a una rappresentazione destinata proprio a questo tipo di giovani spettatori e ne ha tratta la convinzione che si tratti di uno spettacolo che ha caratteri troppo intellettuali e colti per essere compiutamente apprezzato da una platea composta in prevalenza da giovani e giovanissimi. Forse è un’impressione errata, ma c’era il dovere di segnalarla.