Il teatro di ricerca è diventato merce rara. Dopo gli anni ottanta in cui fiorirono decine di iniziative più o meno serie in questo campo, oggi i gruppi che si muovono sul terreno dell’utilizzo di corpi, voci e testi per sondare le infine possibilità offerte dall’azione scenica non ancora portate alla luce sono finiti al margine dell’attività di palcoscenico comunemente intesa. Questo fa sì che vada riconosciuto un merito non marginale a un complesso come il Teatro Akropolis che quella strada continua a praticarla con cocciuta coerenza.
Lo prova la trilogia ispirata all’opera del filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844 – 1900). Dopo Amor Fati e L’anticristo è la volta di Morte di Zarathustra. Gli spettatori sono immersi da subito in un ambiente buio in cui risuonano i colpi di un attore che cerca di emergere da quella oscura prigione. Lentamente le luci si alzano sui quattro protagonisti del testo, una donna e tre uomini, che continuano a mimare un difficile tentativo di liberazione, per poi piombare in una sorta di battagli sessuale in cui i maschi tentano di impossessarsi della femmina spogliandola in parte e maneggiandola quasi come un oggetto. E’ a questo punto che l’attrice si ribella e si impone agli altri, riconquista la parola e pronuncia le sole battute che risuono in tutto lo spettacolo. E’ un percorso sostanzialmente semplice, ma impreziosito da un uso atletico – espressivo dei corpi che rasenta la perfezione e impone agli attori una performance di grande forza ed efficacia. Ne risulta un discorso tutt’altro che banale e un mondo davvero originale di affrontare la scena.