Otello (The Tragedy of Othello, the Moor of Venice, intorno al 1603) è, fra le tragedie di William Shakespeare (1564 – 1616), una delle più rappresentate e studiate. La storia dell’ammiraglio di colore, marito di una nobildonna veneziana, indotto alla follia da un suo alfiere che, per invidia, gli fa credere che la moglie lo tradisca con il suo luogotenente ha fatto il giro del mondo sino a dar luogo, da noi, a espressioni popolari quale sinonimo di gelosia smisurata che induce ad atti inconsulti. Arturo Cirillo mette mano a questa tragedia con uno spettacolo, solo parzialmente convincente, in cui si scontrano senza fondersi spirito d’innovazione e una recitazione sbilanciata, piena di toni tradizionali e con punte di fastidioso tromboneggiare.
Il palcoscenico è dominato da due grandi pareti mobili che racchiudono pochi oggetti di scena a simboleggiare i vari luoghi: la sala del gran consiglio a Venezia, gli ambienti della guarnigione veneta nell’isola di Cipro, la stanza da letto in cui il militare uccide la moglie. Ambientazione quasi asettica, sicuramente antinaturalista, in cui si muovono personaggi che recitano come se facessero parte di una compagnia ottocentesca, con reboanti toni di voce, gesti plateali, pianti e risa degne delle peggiori caccole teatrali. In altre parole è un conflitto stilistico non risolto e improduttivo.