Il drammaturgo norvegese Henrik Ibsen (1828 – 1906) scrisse Una casa di bambola (Et dukkehjem) ad Amalfi nel 1879. Il testo fu rappresentato a Copenaghen nel dicembre dello stesso anno e fu al centro di furiose polemiche fra chi lo esaltava come esempio di realismo nei rapporti sociali e chi si scandalizzò per l’estremismo femminista che vi scorgeva.
Lo stesso autore fu costretto a riscriverne il finale per la messa in scena tedesca in quanto l’attrice protagonista si rifiutava di dare corpo a una donna che rinunciava a marito e figli per realizzare se stessa. La storia è quella di Nora, una moglie bambina che anni prima ha falsificato la firma del padre per ottenere il prestito indispensabile a salvare la vita al marito. Ora, a distanza di tempo, si presenta colui che gli ha concesso il denaro e pretende che lei interceda per lui nei confronti del marito - nel frattempo diventato direttore di banca - per evitargli il licenziamento. Quando i nodi vengono al pettine, il coniuge si rivela un pusillanime interessato solo alla sua rispettabilità e del tutto indifferente ai problemi affrontati dalla moglie. Andrèe Ruth Sammah ha presso in mano questo testo curandone traduzione, adattamento e regia con l’intento di proporne una lettura originale basata sostanzialmente su due elementi. Il primo si concentra sull’immagine dell’interprete principale vista non come una vittima, ma come una manipolatrice della realtà. Questa lettura si sfalda progressivamente sino a riconsegnarci, nel finale, una donna più che mai succube del dominio maschile. La seconda novità consiste nell’affidare all’attore Filippo Timi ben tre ruoli – l’avvocato Helmer, il dott. Rank e il procuratore Krogstad – ma questa scelta si rivela più funzionale all’ego dell’interprete e, scusare la malignità, alla voglia di risparmiare sugli investimenti, che non a una vera esigenza espressiva. Nella sostanza uno spettacolo professionalmente corretto, ma privo di qualsiasi originalità di lettura.