Alcuni anni or sono il regista francese Sylvain Chomet assunse a notorietà per un divertente e melanconico film d’animazione: Appuntamento a Belleville (Les triplettes de Belleville, 2003). Era un’opera in cui il disegno si accompagnava a un attento utilizzo dei movimenti dei personaggi e a uno scenario segnato da un proficuo rapporto fra realismo e fantasia. Le stesse doti le ritroviamo in questo L’illusionista (L'illusionniste) che ha un padre particolarmente celebre, essendo derivato da una sceneggiatura, mai realizzata di Jacques Tati (all’anagrafe Jacques Tatischeff, 1907 – 1982). E’ un film in cui, ancor più che nel precedente, hanno campo ironia e tristezza con le parti dedicate agli spettacoli che costituiscono un vero e proprio gioiello di povertà malinconica e dignitosa.
Molto di questo si deve alla lezione che ci ha lasciato il grande comico francese, qui citato inserendo nella storia la proiezione di una scena di Mio zio (Mon oncle, 1958). Il film racconta una storia semplice, banale, ma di grande forza emotiva. Un maturo prestigiatore va a cercare lavoro in Inghilterra, scendendo sempre più in basso nel livello dei locali in cui si esibisce, sino al momento in cui, arrivato a Edimburgo, incontra una servetta che s’innamora di lui, meglio delle sue arti magiche. Fra i due s’instaura un rapporto quasi figliale, ma non esente da elementi sentimentali. Una relazione alimentata dall’illusione della ragazza che il mago possa fare qualsiasi cosa e comprarle tutto ciò che desidera. La relazione che si spezza quando la donna incontra un giovane bello e, forse, benestante. A questo punto l’illusionista compie un vero miracolo: si fa auto scomparire. E’ un testo poeticamente denso, disegnato in modo magnifico, ritmato in maniera precisa.
