Secondo gli stereotipi che segano il quadro degli Stati Uniti, la Florida è una sorta di Paradiso. Un luogo ideale per pensionati, turisti (qui, nei pressi della città di Orlando, ha sede il Disneyworld Resort, un complesso di alberghi, negozi, parchi a tema che attirano migliaia di turisti ogni anno) e persone dalle significative disponibilità attratte dal clima mite e dalle occasioni di divertimento.
Il regista Sean Baker smitizza tutto questo nel film Un sogno chiamato Florida costruito su tre ragazzini e le rispettive madri. Esseri umani che abitano in uno degli orrendi alberghi. dipinti a tinte pastello, che segano il paesaggio di quello Stato. Qui vivono, ospiti del Magic Castel Hotel il cui manager (dirigente tuttofare) è un perfetto Willem Dafoe, Moonie e Scooty mentre la loro amica Jancey vive in un albergo vicino non molto diverso. I tre bimbi, tutti intoro ai sei anni, hanno formato una sorta di banda e passano il tempo inanellando marachelle che vanno dagli sputi sulle macchine parcheggiate sotto le loro stanze al motteggiamento delle anziane signore che prendono il sole in topless nella piscina condominiale sino, ed è il fatto il più grave, all’incendio dei ruderi di alcune casette disabitate. Le madri tirano a campare come possono: quella di Mooney sopravvive vendendo profumi taroccati, mangiando il cibo che una sua amica ruba al fast food ove lavora e prostituendosi occasionalmente non disdegnando di derubare i clienti. Quello che emerge da questo film è l’altra faccia del luccichio di uno dei luoghi mitici dell’immaginario americano e la messa in primo piano della povertà e la miseria che opprimono uomini e donne che vivono a pochi metri da mirabolanti macchine si spettacolo. Un mondo fatto da persone che sopravvivono al limite dell’indigenza, un universo polveroso e miserabile malamente nascosto dai colori pastello e dalle grandi costruzioni spettacolar – pubblicitarie che marcano il panorama di un Paradiso falso quanto crudele.