Il movimento per il riconoscimento di diritti civili e politici alle donne ha compiuto un lungo percorso. Sin dalla rivoluzione Francese si ricordano i Cahier de Doléances des femmes (Quaderni di denuncia delle donne, 1789) presentati agli Stati Generali, anche se in quel paese il diritto dil voto al secondo sesso fu concesso solo nel 1945. Peggio accadde alla pacifica Svizzera, dove tale diritto fu sancito solo nel 1971 o nella ricca Arabia Saudita ove questo fondamentale riconoscimento è arrivato solo negli anni duemila.
Con simili precedenti e tenendo conto dei moltissimi altri diritti negati, economici e politici, che ancor oggi segnano la vita dell’altra metà del cielo, non si può non valutare positivamente un film come Suffragette, in cui la regista Sarah Gavron e la sceneggiatrice Abi Morgan hanno ricostruito il movimento in favore al voto alle donne in un anno cruciale: il 1912. Lo hanno fatto attraverso la presa di coscienza politica di una lavoratrice di una lavanderia industriale che passa progressivamente dalla consapevolezza della condizione drammatica, in fabbrica e a casa, in cui è costretta alla militanza. Il film si chiude ricordando le migliaia di donne che parteciparono, rendendolo un fatto storico, al funerale di Emily Wilding Davison (1872 – 1913), la militante che perse la vita gettandosi per protesta fra le zampe del cavallo di re Giorgio V (1865 – 1936) al Derby di Epsom. Il film ha il tono di un classico melodramma storico d’impostazione progressista e, come spesso capita nei film inglesi, l’ambientazione è precisa, accurata e pregevole. In particolare per quanto concerne la repressione poliziesca e la violenza con cui lo Stato risponde alle giuste richieste delle donne il cui sfruttamento in fabbrica, anche sessuale, costituisce, assieme a quello dei minori, uno degli elementi fondamentali della ricchezza del paese. Un film pregevole, anche se non originalissimo, che ci ricorda di quanto sudore e sangue grondi il benessere dei paesi moderni.