Ronit Elkabetz è una nota attrice israeliana di cinema e televisione che ha esordito alla regia, assieme al fratello Shlomi, con E prenderai moglie (Ve'Lakhta Lehe Isha, 2004) presentato nell’ambito della Settimana Internazionale della Critica alla Mostra di Venezia ove ha vinto sia il premio del pubblico, sia dello della FIPRESCI. Il film affrontava uno dei temi che diventeranno centrali nella filmografia di questa cineasta: la condizione difficile della donna che cerca di separarsi da un marito che non ama più.
Per capire i termini esatti di questa tematica bisogno tenere conto che, nonostante quanto si pensi in generale, Israele è uno stato confessionale e ancor più lo diventerà se sarà approvato il progetto di costituzione caldeggiato dal premier conservatore Benjamin Netanyahu (1949) che mira a fare della Torah una vera e propria fonte di diritto, cosi come lo è la Sharia per i mussulmani. Ciò significa che matrimoni e divorzi sono di competenza solo delle autorità rabbiniche e che laici o fedeli di altre religioni non possono ricorrere allo stato per sanzionale i loro diritti personali. In questo quadro Viviane Amsalem, sposata quasi controvoglia ad un uomo molto religioso che le ha fatto fare vari figli, ma che l’ha sempre trattata come una cosa di sua proprietà che non ha alcun modo di avanzare pretese o reclamare diritti, deve ricorrere al tribunale rabbinico se vuole ottenere il divorzio e questo può accadere solo se il marito, meglio l’ex – marito, dà il suo consenso. Lei è ritornata a vivere con i parenti da ben tre anni e non vuole più avere a che fare con l’uomo, ma questo conta poco e nulla. Fra schermaglie giudiziario – religiose, assenze strategiche, testimonianze di amici, parenti e vicini passano cinque anni e l’agognata separazione arriverà solo dopo che lei avrà accettato di non sposarsi con un altro. I registi seguano questo dramma familiare filmando - in un’aula spoglia, diruta e miseranda – le udienze del rituale intercalandole con semplici scritte che indicano lo scorrere del tempo. Ne nasce un film da camera ad alta drammaticità che consente alla cineasta e interprete di sviluppare al meglio le sue arti, passando dalla recitazione sottotono a quella urlata. Un ventaglio in cui rassegnazione e rabbia diventano la cartina di tornasole di una condizione umana in cui le donne sono viste solo come produttrici di figli e schiave domestiche. In questo il film assume un valore che va ben oltre il caso specifico e la denuncia di una struttura politico – religiosa arretrata e feroce per allargarsi alle discriminazioni di genere che segnano buona parte del mondo, occidente liberale compreso.