Con il suo film del debutto dietro la macchina da presa, 28 giorni (28 Hotel Rooms, 2000), l’attore quarantaseienne Matt Ross – attivissimo in televisione, meno sul grande schermo – aveva dato vita ad un melò sul rapporto eroticamente e sentimentalmente torbido di due persone che si incontrano casualmente in un albergo.
Noioso, bruttino, ma per fortuna particolarmente breve. In questa sua seconda fatica, anche qui unico sceneggiatore, fa tesoro delle cocenti critiche e confeziona un film con tutte le caratteristiche per potere piacere al pubblico e a una certa critica che frequenta il mondo dei Festival. Non a caso, è stato favorevolmente accolto al Sundance Film Festival, a Cannes (sezione Un Certain Regard, premiato come migliore regia), alla 51ma rassegna di Karlovy Vary (premio del pubblico), al Festival di Roma (premio del pubblico) e ad un’altra decina di manifestazioni di buon livello. Captain Fantastic è presentato come film indipendente e, a livello produttivo, lo è sicuramente; ma nella struttura, raschiando poco sotto l’epidermica crosta da opera di denuncia, ci si rende conto di essere di fronte ad un buon prodotto ma particolarmente convenzionale. E’ vero, si parla di questa famiglia con sei figli che vive nelle foreste in un bus e con pochissime comodità, della figura dei genitori che spesso diventano giudici inappellabili e fautori della vita dei propri ragazzi, delle diversità frastornanti tra vita naturale ed esistenza nelle ipertecnologiche città in cui Internet, videogiochi e superfluo sono indispensabili per sopravvivere. Tuttavia ogni cosa è detta con un certo buonismo, evitando di colpevolizzare o premiare troppo le varie realtà raccontate. Buona la regia, ottima l’interpretazione di Viggo Mortensen che ha dato ulteriore fiducia al regista dopo essere stato il protagonista di 28 giorni. Lui e il cineasta sono molto amici, hanno collaborato in maniera simbiotica, realizzando un prodotto in cui è difficile scindere l’apporto di ciascuno nell’economia del film. Abbiamo creato il Paradiso è la frase ricorrente che questo padre inserisce soprattutto quando nota che i figli sono un po’ in crisi, ma è un Paradiso in cui tutto è da conquistare, da sudare, da soffrire per ottenerlo. La moglie è presente in immagine anche dopo la morte, come un angelo che veglia su di loro. Molte le scene un po’ forti, inserite per accontentare il pubblico: la caduta della figlia quindicenne dal tetto, il furto di alimenti nel supermarket che compiono stremati falla fame, il funerale della donna da lui interrotto urlando che voleva essere cremata e tante altre, ben costruite ma che danno l’impressione di essere inserite per sperare in un buon esito al box office. Il finale, buonista ai massimi livelli, si scontra con la drammaticità di tutto il resto. Un cinquantenne vive con la moglie e i sei figli, isolato dal mondo nelle foreste del Pacifico nord-occidentale. La donna è affetta da una grave forma di bipolarismo ed è costretta ad abbandonare la famiglia. Lui cerca di crescere i figli nel migliore dei modi, offrendo loro una simbiosi completa con la natura unita alla lettura di libri che li formeranno. Quando la donna muore drammaticamente, è costretto a lasciare la vita che si era creato, per affrontare il mondo reale, fatto di pericoli ed emozioni che i suoi figli non conoscono ma che lui sente indispensabili per la loro maturazione.
