La storia di Lee Israel è tanto interessante quanto drammatica e, attraverso la sua autobiografia, è possibile capire di più sul mondo dell’editoria americana, sulla facilità con cui si possa perdere notorietà e prestigio per non essere più di moda ma anche perché non si sa essere diplomatici.
Non era una delle tante pennivendole, ma giornalista di qualità e autrice di biografie di successo su personalità del livello di Katherine Hepburn, Tallulah Bankhead, Estée Lauder e della giornalista Dorothy Kilgallen. Perde il lavoro per avere litigato col caporedattore, la sua agente non accetta di aiutarla finanziariamente nella scrittura dell’ennesimo approfondimento su nomi che non tirano più, e lei si trova ad essere povera, incapace di pagare l’affitto della modesta casa, le bollette, addirittura il mangiare. Donna piena di ingegno, decide di vendere una lettera inviatale come ringraziamento da uno dei protagonisti del suo libro; scopre che di questo c’è un fiorente mercato e decide di falsificare missive di attrici, scrittrici, persone gradite. Non crea falsi: scrive cose che le plagiate avrebbero potuto scrivere; anzi, le scrive ancora meglio. Sembra avere scoperto un pozzo inesauribile, ma a causa di un incidente di percorso (una persona che conosceva bene l’autrice di una delle missive) FBI indaga e scopre facilmente l’inghippo. Lee Israel è condannata a sei mesi di domicilio coatto, perché trovò giudici che capirono il suo dramma e riconobbero che non c’era il desiderio di arricchirsi ma, tutto sommato, di tornare – seppure in incognito – ad essere la scrittrice amata di un tempo. Candidato a tre Oscar, amato forse più dal pubblico che non dalla critica, il film ha il pregio di portare a conoscenza un personaggio innegabilmente interessante. Morì la vigilia di Natale del 2014; pochi mesi dopo venne annunciato che dal suo libro e dalla sua storia sarebbe strato tratto un film, che inizialmente avrebbe dovuto vedere protagonista Julianne Moore e regista Nicole Holofcener, presente ora come co-sceneggiatrice assieme a Jeff Whitty; ma così facendo è stato trasformando questo progetto in un altro tipo di prodotto. Intendiamoci, non è un ripiego avere utilizzato un’attrice del valore di Melissa McCarthy, brava e convincente, ma probabilmente ha nuociuto all’interesse del prodotto la scelta della regista Marielle Heller qui al suo secondo titolo dopo Diario di una teenager (The Diary of a Teenage Girl, 2015) in cui i toni del melodramma sono presenti e dove manca una certa fluidità. La Heller, giovane ma con grande esperienza televisiva, non trova il giusto ritmo e risulta spesso ripetitiva. Buon film che, se affidato ad autore diverso, poteva essere ottimo.