Room nasce sulla base del romanzo Stanza, letto, armadio, specchio (2010) della scrittrice e sceneggiatrice Emma Donoghue (1969) che, a sua volta, si era vagamente ispirata al caso Fritzl, un episodio di cronaca nera avvenuto nella cittadina austriaca di Amstetten dove una donna ha vissuto per 24 anni imprigionata in un bunker costruito dal padre che l’ha ripetutamente violentata e le ha fatto fare ben sette figli.
Nel film il rapitore non è parente della vittima, ma un delinquente che segrega lei e il figlioletto che compirà i cinque anni da recluso, per più di un decennio in un capanno insonorizzato costruito nel giardino di casa. Tutto è visto con gli occhi del bambino che non conosce altro mondo se non quello della stanza e ciò che gli arriva dalla televisione, immagini che lui è convinto siano sempre frutto di fantasia. Il film è diviso in due parti nettamente distinte. Nella prima è descritta la vita dei due prigionieri nei pochi metri quadrati in cui sono ristretti, nella seconda il difficile ritorno alla vita normale di madre e figlio con le inevitabile difficoltà di accettare regole e ritmi di vita da cui sono stati sottratti per lungo tempo. In altre parole è un prodotto di grande professionalità e acutezza psicologica, una storia capace di cadenzare in modo perfetto i vari passaggi dalla detenzione al riadattamento nella società. Un itinerario che regia e sceneggiatura cadenzano senza l’auto di inutili truculenze o eccessive scene madri. Un film di questo tipo richiede attori di grande bravura e, non a caso, Brie Larson (1989) che da interpreta la donna ha ottenuto il Premio Oscar per quest’interpretazione.