Sono pochi i cineasti che hanno indagato sul percorso compiuto dai mussulmani radicalizzati su una strada che potrebbe approdate al terrorismo.
Ahmed è un ragazzo di 13 anni che frequenta una moschea retta da un imam radicalizzato che lo spinge a disprezzare una sua insegnante di arabo che vuole insegnargli la lingua, tuttavia, come una cosa viva e non come una semplice traslazione dal Corano. Spinto dal fanatismo il ragazzo accoltella la vittima che rimane ferita. Arrestato e rinchiuso in una sorta di riformatorio inizia faticosamente e insinceramente un percorso di redenzione che si conclude con la sua fuga e un nuovo tentativo di ferire l’insegante. Sarà proprio la maestra a salvarlo da una morte quasi sicura: è caduto da una finestra. Forse questo gesto di generosità servirà a far capire al giovane come la violenza sia da sostituire con la tolleranza. I due registi belgi proseguono sulla strada della denuncia della recuperabilità dei giovani a cui la società ha chiuso le porte in faccia, si ricorsi la disoccupata Rosetta (1999). Anche in questo caso non abbandonano la speranza identificabile nell’invocazione alla madre che il giovane ripete dopo essere caduto. In questo il film mostra una forte sensibilità unita a una capacità non comune di scandagliare l’animo di un essere umano caduto preda a un fanatismo che è ad un tempo malessere del vivere e rabbia per un’esistenza che non contempla ipotesi di riscatto. Il modo di raccontare di questi due cineasti è sempre lineare e piano, un modo di affrontare, oggi come ieri, temi di forte attualità e di grande drammaticità.