American Pastoral è il titolo di un libro dello scrittore ebreo americano Philip Roth (1933), edito nel 1997 e coronato con il Premio Pulitzer 1998. La storia è, nella sostanza, quella del rapporto difficile, ma tenacissimo fra un padre e una figlia che, prima, abbandona la tranquillità della vita borghese per darsi alla macchia assieme a un gruppo di guerriglieri marxisti, per poi rifugiarsi in una filosofia indiana non meno estremista.
La riconciliazione avverrà solo sul feretro del genitore, un gesto che chiude un’intera fase della storia contemporanea americana. Tutto inizia con un riunione di ex compagni di scuola in cui uno scrittore, che è stato lontano dagli Stati Uniti per molti anni e in cui si potrebbe scorgere un alter ego dello stesso romanziere, incontra un coetaneo che gli racconta la storia del fratello che è stato un mito sportivo per l’intero istituto scolastico. Gli ricorda e il regista ce li mostra, i triboli e i dolori subiti dall’ex – atleta causa il rapporto complesso e conflittuale con la figlia. Si inizia dagli anni sessanta, con il dramma della guerra vietnamita, le proteste dei giovani contro i crimini americani in Estremo Oriente, la presidenza di Lyndon Johnson (1908 – 1973), gli attentati dinamitardi compiuti dai gruppi della nuova sinistra. La commistione fra le vicende personali e il quadro complessivo del paese stabilisce una convivenza narrativa non facile ad essere trasportata sullo schermo. L’attore e regista Ewan McGregor, qui al suo esordio dietro la macchina da presa, non riesce a dominare la materia con sufficiente efficacia. Nel senso che le due anime della storia marciano per buona parte separate, tanto che la riunificazione finale davanti alla bara del protagonista, arriva quasi senza motivazioni logiche. Nonostante questo il film merita un grande rispetto e al regista va riconosciuto il coraggio di aver affrontato un tema davvero arduo.
