C’è sempre una certa diffidenza verso il film strettamente legati a qualche cosa nato in terreni decisamente extra-cinematici, siano canoni o testi teatrali. Un sospetto che, nel caso di Arance e martello, opera d’esordio sul grande schermo di Diego bianchi, è stata rafforzata dal particolare modo con cui il popolare Zoro costruiva le sue trasmissioni.
Queste ultime avevano due punti fermi: l’utilizzazione di immagini catturate con piccole telecamere e il collegamento diretto alla cronaca politica quotidiana. In questo senso il film costituisce una piccola, piacevole sorpresa. Il racconto è quello della rivolta di un gruppo di proprietari di banchi di un mercatino rionale minacciato di chiusura che chiedono aiuto ad una sezione del Partito Democratico, arrivando ad occuparne i locali. Lo snodo sono le indecisioni dei dirigenti: se appoggiare i rivoltosi o accettare l’invito alla razionalizzazione del commercio, anche ambulante, contenuto nell’ordinanza del primo cittadino. Siano nell’estate 2011 e il sindaco di Roma è Roberto Alemanno a capo di una giunta di destra, un tipo propenso alle promesse facili seguite dai modi spicci. Il centro della narrazione è la riunione di partito – pochissimi dirigenti e militanti oppressi dall’afa dell’estate più calda degli ultimi centocinquanta anni - in cui si scontrano voglia di mantenere saldi rapporti con il territorio, velleità ecologiste, nostalgie resistenziali, fumisterie politichesi. E’ una farsa realista il cui difetto principale è nella dilatazione eccessiva di un’idea, forse perfetta per un mediometraggio, ma qui sfilacciata su poco meno di due ore di proiezione. E’ un peccato, ma di cui vanno premiate le buone intenzioni, che dimostra un'accettabile capacità di girare e un florilegio di trovate alcune delle quali tutt’altro che banali.