J.J. Abrams, noto soprattutto per avere prodotto i vari Star Trek ma anche tutti i Mission: Impossible (regie di Brian De Palma, John Woo, J. J. Abrams, Brad Bird e Christopher McQuarrie) e del bellissimo Super 8 (2011) di cui è stato anche autore. Nel 2008 aveva voluto Cloverfield da lui affidato alla regia dell’amico Matt Reeves.
Pur essendo un classico disaster catastrophic movie, dimostrava grande innovazione grazie al pressante utilizzo di una macchina da presa a spalla che pedina i protagonisti senza tregua. Lì erano ragazzi ad una festa che assistevano in diretta alla distruzione della loro città e alla morte di molti cari, qui un rifugio antiatomico in cui sono rifugiate tre persone. 10 Cloverfield Lane, che riprende il titolo del precedente, è stato profondamente voluto dal produttore che, con grande coraggio, ha affidato il progetto al debuttante trentacinquenne Dan Trachtenberg con notevoli esperienze nella pubblicità – sue campagne per Lexus, Nike e Coca Cola – ma come esperienze ulteriori solo due corti e una puntata di un serial. I due film sono parenti, ma non per questo possono o devono essere considerati uno la prosecuzione del altro. Ambedue sono legati a catastrofi che distruggono il mondo o parte di esso, ma l’impostazione narrativa – e la storia stessa – sono molto dissimili. Qui non servono effetti ma buoni attori, nel precedente era tutto capovolto con una certa attenzione alla spettacolarità delle immagini. Eppure, le emozioni sono molto simili con misteri difficili da risolvere legati a fatti superiori non gestibili dai personaggi, o questo è quanto essi credono. Dopo essere stata coinvolta in un incidente stradale, una giovane donna si ritrova in un misterioso rifugio incatenata ad un letto con una flebo nel braccio. Non è sola, assieme a lei ci sono due uomini, uno dei quali sostiene di averle salvato la vita. Alla ragazza è anche detto che il mondo esterno è ormai invivibile a causa di un attacco chimico-batteriologico. Il salvatore è un ex marine, l’altro è un giovane che volontariamente si è rifugiato lì. Lei (forse) crede a quanto dettole ma, nello stesso tempo, è decisa a tentare la fuga. Sceneggiato da autori talentuosi ma quasi sconosciuti, studia ed analizza con bravura le personalità di tre persone che inizialmente sono estranee tra loro ma che, alla fine, si trovano a condividere una vita quantomeno anomala. E’ una bella commedia che richiede estrema attenzione da parte dello spettatore a tutti i particolari – nulla è detto e non considerato nello sviluppo narrativo – pena la perdita del piacere di buone trovate. Grande mattatore è John Goodman che vive con intensità questo ex marine che si è costruito un rifugio antinucleare. Alterna momenti d’ira ad altri in cui diventa molto protettivo, sembra carnefice e si trasforma in padre affettuoso, misterioso e molto umano. Sono momenti diversi della stessa personalità che l’attore vive in maniera perfetta. Mary Elizabeth Winstead è la ragazza prigioniera: trentenne, con molte esperienze soprattutto nell’ambito televisivo, è assolutamente credibile. Il coetaneo John Gallagher Jr, stesso tipo di curriculum professionale, è molto equilibrato nel rendere la figura di un uomo che non si sa se sia complice del più anziano o realmente ospite volontario del rifugio. L’unico problema, per un pubblico non informato, è di scambiarlo per un horror rimanendo, ovviamente, delusi.
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