La pellicola Oro verde - C’era una volta in Colombia, premiato all’ultimo festival di Cannes con il premio della critica della sezione Quinzaine des realizateur il quarto lungometraggio del giovane cineasta e sceneggiatore colombiano Ciro Guerra. Come per le sue precedenti opere a fare da sfondo alla vicenda, è l’amata terra di origine, vista attraverso le gesta di una popolazione arcaica, che ha saputo difendersi e resistere nei tempi ai vari conquistadores: pirati, inglesi, spagnoli, ma che nulla può contro le regole spietate e non sempre lecite del mercato capitalistico.
Ciro Guerra - a cui si aggiunge alla regia la co-sceneggiatrice e produttrice Cristina Gallego -, in questa pellicola, che ha la caratteristica si essere suddivisa in cinque capitoli, lavora da antropologo, riprendendo con sguardo documentaristico, avvalendosi di una eccellente fotografia, i rituali e le dinamiche interne alla comunità dei Wayuu ritraendone i caratteri umani e la trasformazione che in pochi anni li porta a diventare una gang di narcotrafficanti per poi sgretolarsi. Temporalmente le vicende traguardano la fine degli anni 60 del secolo scorso, un’epoca di profondi rivolgimenti politici e sociali per il mondo latino-americano, sospeso tra speranza e disillusione che risente ancora da un lato dei grandi miti rivoluzionari e dall’altro del giogo plumbeo dell’ingerenza americana a partire dall’amministrazione Nixon e di quelle successive. Ciro Guerra non si sottrae dunque dal fare un film di denuncia politica, che mette sul banco degli imputati, come ovvio, il mercato e le conseguenza profanatorie, su un mondo, immaginato ancora come un ultimo paradiso e tuttavia non manca di sondare altri generi, mescolando argutamente la dimensione del romanzo per scivolare con la naturalezza del realismo dei suoi protagonisti nel gangster movie. Allo stesso modo è fatto uso dell’immagine e del suono, particolarmente centrato su tutta la pellicola, che rende ancora più intensa la storia.