Bruno Dumont è uno dei registi più interessanti del cinema francese, i suoi film mescolano realtà e situazioni surreali, riferimenti mistici e ironia. E’ quest’ultima a dominare in Ma Lutte in cui il paesaggio naturale, magnificamente riproposto, e i riferimenti agli anni dieci del secolo scorso convergono in una storia a mezza strada fra la metafora e il racconto morale.
1910 la baia di Slack, nel nord della Francia, è percorsa da una ventata di terrore legata alla scomparsa misteriosa di alcune persone. Qui soggiorna una famiglia altoborghese venuta a passare le vacanze e vi circola anche un improbabile commissario di polizia, grassissimo e super imbranato, che si porta dietro un aiutante smilzo e non troppo intelligente, il riferimento alla coppia Stanlio e Ollio (Stan Laurel e Oliver Hardy) è evidente e voluto). Ben presto scopriamo che le sparizioni sono dovute a una famiglia di pescatori locali che ne usa le salme come cibo. Un caso di cannibalismo che diventa, altrettanto rapidamente, una metafora della lotta di classe - il figlio del capofamiglia pescatore si chiama, non a caso, Ma Lutte (La mia lotta) - che sta contrapponendo proletariato miserabile e alta borghesia. Fra scene da comica finale e pasti sanguinolenti il film sfocerà in una sorta di sconfitta per i poveri e trionfo dei possidenti, una vittoria che contiene i germi di una futura decadenza. Il film è godibile dalla prima all’ultima sequenza e allinea personaggi che richiamano il cinema classico, soprattutto muto, e mostra una maestria di direzione già emersa dalla opere precedenti di questo autore, ad iniziare da La vie de Jésus (1997) sino a P’tit Quinqui (2014) passando per L’Humanité che ottenne nel 1999 il premio speciale della giuria e, fra grandi polemiche, quelli per l’interpretazione maschile e femminile andati a due attori presi dalla strada (Emmanuel Schotté e Séverine Caneele) poi praticamente scomparsi dalla professione.