Barry Jenkins ha tratto Moolight dal testo teatrale omonimo di Tarell Alvin McCraney. E’ il ritratto, ambientato fra la gente di colore a Miami, dell’infanzia, adolescenza e maturità di un nero spacciatore e omosessuale che, prima, deve superare le molestie dei compagni di scuola e le difficoltà di una madre violenta e tossicodipendente, poi deve vedersela con i bulli che lo tiranneggiano quando è diventato adolescente, infine fronteggiare le difficoltà con cui deve misurarsi nel difficile mestiere a cui è stato avviato da un corpulento padre adottivo e da una società che ha scelto per lui un ruolo segnato sin dall’infanzia.
E’ un film in tre capitoli marcati dai soprannomi con cui è indicato il protagonista che solo nella parte finale si conquista il diritto ad essere chiamato con il suo vero nome. Un tempo film come questo si chiamavano all negros a indicare un tipo di produzioni con cui le grandi case tentavano di far dimenticare il razzismo di fondo che segnava gran parte dei loro film, come la Mamy di Via col vento (1939), e cercavano di conquistare il pubblico di colore. Qui, invece, il discorso è rovesciato con un’immersione totale nell’universo dei diseredati o dei predestinati ad esserlo in una grande città multietnica. Le tre parti del film sono affidate a attori di colore di diversa età che simboleggiano l’ascesa del protagonista alla pseudo libertà offertagli dal pieno diritto a praticare liberamente le sue scelte sessuali e affermarsi, seppur in un ruolo marginale e criminale, nel quadro sociale. E’ un film originale nell’impostazione e ricco di spunti non banali che tempera l’origine teatrale con un dialogo serrato e articolato. Un esempio di cinema costruito con sensibilità ed intelligenza che affronta in problema grave e complesso senza alcuna pretesa di banalizzare soluzioni o ritagliare con l’accetta i caratteri dei personaggi.