Il mondo della finanza, pieno come è di tecnicismi e pratiche complesse, è un pessimo terreno di manovra per gli artisti, siano essi cineasti romanzieri o drammaturghi. La necessità di rendere facilmente intellegibile ciò di cui si parla, trattandosi di materia di per sé complessa e spesso oscura, gioca brutti scherzi a chi vi si avventuri senza la capacità di coglierne le linee essenziali. In un certo senso è quanto è successo a Martin Scorsese con The Wolf of Wall Street (Il lupo di Wall Street), film che ha tratto dall’autobiografia di Jordan Belfort, un mediatore azionario condannato a ventidue mesi di carcere per truffa ai danni di migliaia di piccoli risparmiatori a cui vendette, fornendo informazioni false, milioni di azioni di nessun valore e intascando provvigioni miliardarie.
Vittima di una furiosa mania di grandezza, mise in piedi un’organizzazione (Stratton Oakmont) che coinvolse centinai di venditori indottrinati con un metodo – religione (Straight Line) basato su una sorta di tabella di marcia per la conclusione degli affari, dall’avvio alla chiusura dei contratti. Il film ne segue la resistibile ascesa partendo dai primi passi di questo vulcanico criminale sino alla sua rinascita come conferenziere e autore di un libro, passando per il successo esagerato – in ogni senso - e tumultuoso, ivi compresi i metodi del tutto eterodossi di gestione dell’azienda (un misto di denaro, droghe, prostitute, nani, eccessi vari), l’arresto da parte della FBI, la condanna, le confessioni di un complice che costarono la libertà a non pochi fra i suoi collaboratori. E’ un film vulcanico, diseguale, troppo lungo (quasi tre ore), che sembra essere stato fatto apposta per consentire a Leonardo DiCaprio, attore - feticcio del regista e qui anche in veste di uno dei produttori, di occupare lo schermo, sempre e abbondantemente. In poche parole, un film disordinato e sovrabbondante, compromesso in parte dall’emergere di un discutibile sguardo di solidarietà verso un delinquente che ha rovinato migliaia di piccoli risparmiatori. La vera trovata finanziaria di questo faccendiere fu di rivolgersi a piccoli e medi risparmiatori – solitamente trascurati dalle grandi agenzie d’investimento – proponendo titoli spazzatura, spesso non ancora quotati in borsa. L’operazione gli fruttò utili enormi sotto forma di provvigioni, lasciando nelle mani degli investitori tonnellate di carta straccia. Un caso esemplare di frode che il regista si grada bene dal sanzionare proponendoci un personaggio le cui colpe maggiori sono quelle dell’uso di cocaina, il commercio con le prostitute – d’alto e basso bordo – il gigionismo nella gestione del personale e degli affari. In altre parole emerge, ingigantito quel fascino della delinquenza che faceva capolino in misura più controllata nelle opere precedenti di questo cineasta, Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990) e Gangs of New York (2002) in primo luogo.
