The Judge (Il giudice) del produttore e regista televisivo e cinematografico David Dobkin mette assieme due generi forti del cinema americano: il dramma familiare – in particolare i difficili rapporti fra padri e figli - e il giudiziario. Il primo affonda le radici nella psicanalisi, spesso divulgata in maniera a dir poco grossolana, il secondo nel processo secondo il rito anglosassone con le infinite possibilità di confronti drammatici e istrionici che offre.
Per rendersi conto delle opportunità offerte da quest’ultimo genere basti pensare alle varie serie televisive che lo hanno adottato come asse narrativo. Per citarne solo un paio si va dalla lontano Avvocato Perry Mason, messoa in onda dalla CBS dal 1957 al 1966 partendo dai libri di Erle Stanley Gardner (1889 – 1970), sino al Giudice Amy (Judging Amy) trasmesso, anche questo, dalla CBS dal 1999 al 2005. C’erano dunque tutti gli ingredienti per fare del film un buon testo, ma così non è stato, sia per l’inadeguatezza degli interpreti: Robert Downey Jr. troppo preoccupato di mettersi in mostra per aggiungervi la fatica di recitare, ammesso che disponga di questa capacità, e Robert Duvall svogliato e a tratti insopportabilmente patetico. Con questo piombo nelle ali la storia dell’anziano giudice ammalato terminale di cancro forzato a ricorrere alle astuzie giudiziarie del figlio, detestato in quanto avvocato di successo che ha scelto di difendere solo ricchi criminali, si trasforma in lungo e fastidioso melodramma infarcito di panorami turistici e reso indigeribile da un buonismo immotivato ed eccessivamente zuccheroso. Che dire, poi, della storia d’amore fra il principe del foro e la matura cameriere che ha allevato sua figlia senza fargliene sapere l’esistenza? Quanto meno che si tratta di un espediente facile quanto prevedibile.