Christopher Nolan non ha fatto mistero dell’intenzione di realizzare, con Interstellar, un 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968) adeguato ai nuovi tempi. L’operazione è riuscita parzialmente sia perché il regista non è un nuovo Stanley Kubrick, sia in quanto la teoria che è alla base del film, quella del fisico Kip Thorne circa la possibilità di viaggiare tra vari sistemi solari attraverso un wormhole (traduzione letterale buco di verme), possiede autorevolezza einsteiniana ma scarso spessore immaginifico, come invece avveniva per il film del 1968 in cui la teorizzazione scientifica lasciava il passo alla poetica kubickiana.
Qui la storia, roboante di effetti speciali realizzati con l’ausilio del computer, è quella di un’era, non meglio precisata, in cui la terra sta morendo, forse a causa di un gigantesco effetto serra. Un agricoltore che coltiva granturco, il solo cereale che riesca a sopravvivere nelle nuove condizioni climatiche segnate da continue e devastanti tempeste di sabbia, ed è un ex – pilota di missioni nello spazio scopre casualmente, con la figlia, una base supersegreta in cui si progetta il trasferimento dell’intero genere umano su un nuovo pianeta. Inizia in questo modo il viaggio di un gruppo di astronauti alla ricerca di una possibile ricollocazione dell’umanità e questo avviene seguendo le tracce di tre precedenti missioni che, con lo stesso obiettivo, si sono perse nello spazio senza dare più cenno di sé. Da questo punto in poi, in parallelo con le immagini di ciò che capita sula Terra, il film segue l’avventura spaziale, la morte e i conflitti dei gli astronauti, sino alla scoperta – quasi casuale - da parte del capo missione di un deriva spazio – temporale che gli consente di compiere il lavoro e ritornare fra i suoi anche se li ritrova vecchi e cadenti, mentre lui ha mantenuto (quasi) l’aspetto che aveva alla partenza. E’ un film molto lungo, una decina di minuti in meno di tre ore, rutilante di luci ed effetti, pieno di panorami e immagini mozzafiato, ma sostanzialmente freddo, quasi che il lavoro a tavolino avesse soffocato qualsiasi afflato poetico.