Il film doveva essere distribuito nelle nostre sale già ad ottobre dello scorso anno, ma il poco felice passaggio alla Mostra di Venezia e al Toronto International Film Festival ha convinto i distributori a ritardane la uscita. Poco richiesto dai circuiti internazionali, è un film spurio che non ha un pubblico bene identificato, con troppe scene di violenza per piacere alle donne, e con doppia love story troppo melensa per un pubblico maschile.
Il cinquantenne madrileno Fernando León de Aranoa, autore in toto del film, ha scelto di trasporre il romanzo - scritto da Virginia Vallejo quasi per vendicarsi dell’uomo che ha amato e da cui tutto sommato è stata tradita - dando spazio al loro rapporto d’amore e mettendo in secondo piano la figura di questo genio del male. Escobar viene detto, più che raccontato, come uomo cattivo ma ricco di un carisma che lo faceva amare dai colombiani, capace come pochi di essere punto di riferimento in un paese debole politicamente. Lo si vede grasso, col doppio mento, buon padre che vive (e uccide) per la famiglia, personaggio che non fa paura. Ed è questo il suo potere: entrare in punta di piedi nella vita normale per poi impossessarsi in pochi attimi di tutto. Divenuto miliardario in un paio di anni, poteva contare su una quantità incredibile di persone disposte a morire per lui. Ricompensava le famiglie che perdevano figli o mariti nell’eterna guerra con autorità, ma anche suoi avversari, era l’unica possibilità per tanti di pensare ad una vita un po’ più lontana dalla povertà. Nella sceneggiatura, il regista dà per scontate troppe cose e non permette di capire – o di tentare di capire – questa variegata figura. Gioca coi figli di cui è orgoglioso, a suo modo ama profondamente la moglie, diviene focoso amante di una nota anchor woman colombiana che per lui rinuncia alla rispettabilità e rischia la vita. Ma tutto questo, in un film di due ore, è solo accennato. Una costruzione video, una narrazione lenta, con varie scene di violenza tanto cariche da fare sorridere. Non riesce, o non vuole, creare un film di forte impatto drammatico, sviluppa un melodramma che spesso annoia, sceglie di creare il nulla attorno ai tre personaggi principali, quattro con la figura della moglie. In questa maniera, tutto ruota attorno a loro ma, spesso, il peso di queste immagini che li raccontano in maniera crudele – i nudi di Javier Bardem ne sono un esempio – spesso non sono bene supportati dalla recitazione. Protagonista e produttore, l’attore spagnolo cerca di caratterizzare il personaggio appesantendosi nel fisico, usando un inglese (nell’edizione originale) come lui pensa lo parli un latino americano, si muove con la lentezza di un bradipo: ne scaturisce un personaggio difficilmente difendibile. Penelope Cruz è lì ma, probabilmente, con la testa da un’altra parte. Lo stesso discorso vale per Peter Sarsgaard, assolutamente poco credibile come agente della DEA. La vita di Pablo Escobar dall’ascesa criminale all’inizio degli anni Ottanta fino alla morte nel 1993, passando per gli anni del narcoterrorismo, la lotta contro la possibile estradizione negli USA e il rapporto con la giornalista Virginia Vallejo che, dopo essere stata a lungo la sua amante, decise di collaborare con la giustizia per salvare la propria vita e favorendo la sua cattura.
