Il ragno rosso del polacco Marcin Koszałka è ambientato nella Cracovia del 1967, quando la città è sconvolta da una serie di omicidi di donne e bambini perpetrati da un serial killer che la polizia battezza il Ragno Rosso. Karol, che i genitori vorrebbero diventasse medico come il padre, per ora è assorbito dall’attività sportiva di tuffatore in cui ove sta ottenendo ottimi risultati.
Casualmente scopre l’ultimo omicidio dell’assassino seriale e lo vede pochi istanti dopo che ha commesso il delitto. Lo pedina e identifica (un veterinario ombroso, affascinato dal potere che ha chi può dare la morte agli altri) ma non lo denuncia, anzi si presenta a lui sperando di diventarne una sorta di suo discepolo. Quando il delinquente lo mette alla prova, chiedendogli di uccidere una fotografa di cui è diventato l’amante, lui vacilla. Sarà allora il vero ragno rosso ad ammazzare la donna a martellate. Schiacciato dalla propria impotenza trova sfogo confessandosi autore dei crimini commessi dall’altro. Sarà condannato a morte e impiccato. Undici anni dopo il suo ritratto comparirà in una mostra d’arte e sarà proprio il vero assassino, tutt’ora in libertà, ad andare a vederlo fra i primi. Il regista e il direttore della fotografia immergono il film in un’atmosfera cupa a simbolizzare il grigiore della Polonia realsocialista e l’oppressione esercitata sugli spiriti non allineati, anche se l’aver scelto un criminale come filo conduttore della storia rischia di compromettere, almeno in parte, l’essenza del discorso. Ciò che emerge con forza è, invece, la duplicità e l’opportunismo di un potere pronto ad accogliere, magari al ritmo di botte inferte nel chiuso di una questura, una pseudo verità che conviene, ma che nessuno si preoccupa di verificare sino in fondo. In questo due piccoli dettagli confermano le line guida su cui si muove il regista: la sequenza in cui l’inquisitore si vanta con il detenuto di aver ricevuto un orologio, che vale due suoi stipendi, quale premio per la scoperta del (pseudo) assassino e l’altra in cui lo stesso inquirente chiede all’autoaccusato di firmagli e dedicargli le foto dei sopraluoghi a cui ha partecipato. Come dire un film molto ben costruito, ma meno simbolico di quanto avrebbe potuto essere.