Atiq Rahimi (1962) è nato a Kabul, in Afghanistan, e vi è rimasto sino all’invasione sovietica nel 1979 per poi rifigurarsi prima in Pakistan, poi a Parigi. Qui ha ottenuto un grande successo letterario con il libro Syngué Sabour (Pietra di pazienza, 2008) che ora ha tradotto in film con l’aiuto, alla sceneggiatura, di Jean-Claude Carrière. Una miserabile cittadina afghana è diventata terreno di guerra fra opposte fazioni, qui una giovane donna assiste il marito, ben più anziano, caduto in coma dopo aver ricevuto un proiettile nel collo a seguito a una banale lite di orgoglio maschile.
Ora è ridotto come un vegetale, non parla, non muove un muscolo e dipende totalmente dalla moglie che lo nutre, lava, accudisce in ogni modo. Fuori dal misero appartamento infuria la battaglia e i miliziani fanno incursioni in casa rubando i pochi oggetti di valore. Nel corso di una di queste scorribande la donna, per evitare di essere violentata, dice di essere una prostituta, suscitando le ire dei mujaheddin ma schivando la violenza perché una meretrice è impura e un fedele non può neppure toccarla. Tuttavia uno dei miliziani ritorna, reclama il suo corpo, poi, lentamente, s’innamora di lei. A questa storia se ne affianca un’altra, ben più importante, ed è il monologo che la donna rivolge all’uomo immobilizzato. Un lungo discorso in cui progressivamente rivela le sue frustrazioni, i desideri, anche sessuali, inappagati, la sofferenza per la dura oppressione di cui è stata vittima, prima, da parte del padre, poi dal marito. E’ una confessione da cui traspaiono brutalità, umiliazioni, sofferenze che tracciano un quadro d’incredibile violenza subita da lei e da tutte le altre donne sottomesse a una cultura maschilista sino alle estreme conseguenze. A queste latitudini, come dice la protagonista, una donna non è altro che un pezzo di carne con un buco. E’ un film di grande forza, terribile nell’apparente quotidianità che racconta e chiuso da un finale in cui la sola via d’uscita appare segnata da altra violenza.