Aki Kaurismäki è fra i registi più originali e tematicamente costanti del cinema contemporaneo. Nel corso dei una non breve carriera - è nato a Orimattila, in Finlandia, nel 1957 - ha firmato una quindicina di lungometraggi, oltre a un numero consistente di corti. Tutti questi lavori seguono una precisa linea intessuta di polemica sociale e ironia saldate a una netta presa di posizione anticapitalista in favore degli emarginati.
Miracolo a Le Havre (Le Havre) si muove sullo stesso terreno affrontando il drammatico tema dell’immigrazione extracomunitaria. Marcel Marx, un cognome che è tutto un programma, è un ex scrittore che, dopo una vita scapigliata, si è ritirato nella città portuale francese, ove sopravvive malamente facendo il lustrascarpe. Un giorno incontra un ragazzino africano, sfuggito alla caccia della polizia. Il giovane vuole raggiungere la madre che vive a Londra. Lo porta in casa sua e lo aiuta in ogni modo, siano a farlo fuggire verso l’Inghilterra anche grazie anche ai buoni uffici di un commissario di polizia, burbero quanto umano. La vicenda, così riassunta, dice poco perché il pregio del film è in uno stile, magistralmente articolato, che impasta ironia e rabbia rese ancor più efficaci da un taglio che possiamo definire di derivazione brechtiana. Vale a dire uno raccontare depurato da sentimenti e sentimentalismi che guarda a situazioni e personaggi con la freddezza con cui lo scienziato osserva i fenomeni sociali. L’unico momento in cui l’autore si lascia andare a una parvenza d'emozione, è nel modo con cui presenta a questo figlio di una popolazione di dannati della terra le cui miserevoli condizioni sono l’altra faccia del nostro benessere.