Il grande quaderno (A nagy füzet) dell’ungherese János Szász, nasce da un racconto della scrittrice magiara Ágota Kristóf (1935 – 2011) pubblicato, in francese, nel 1987 e editato in italiano da Einaudi nel 1998, assieme al altri due testi, sotto il titolo Trilogia della città di K..
Allo scoppio della seconda Guerra Mondiale due fratelli sono affidati dalla madre alla nonna, una contadina rude, ubriacona e violenta che li accoglie brutalmente e li costringe ad una vita di privazioni. Il padre dei due, un militare, ha consegnato loro un grande quaderno chiedendo vi siano segnate tutte le cose che accadono giorno dopo giorno. La madre scompare dopo aver affidato i figli alla campagnola limitandosi a inviare cose e denaro di cui la nonna si appropria sistematicamente. I due ragazzi crescono fra violenze belliche, persecuzioni antisemite, ambigui rapporti con gli occupanti tedeschi e difficili relazioni con l’anziana contadina. Tutto questo sino all’arrivo dei liberatori russi che stuprano a morte una loro giovane amica. Poco prima è ricomparsa la madre con una figlia fra le braccia e un nuovo compagno, ma entrambe cadono sotto le bombe degli ultimi momenti di guerra. E’ ora la volta del padre che ritorna dopo anni di prigionia e torture. Il terzetto decide di tentare la fuga in Occidente, ma solo i ragazzi sopravvivranno al tentativo: uno arriverà realmente fuori dal paese, l’altro preferirà ritornare indietro. E’ un film che ricorda il grande cinema ungherese degli anni novanta, periodo in cui lo stesso regista ha firmato alcune delle sue opere migliori, da Woyzeck (1994) a Witman fiúk (I ragazzi Witman, 1997). E’ un modo di raccontare ad alta perfezione formale, curatissimo nei dettagli, sino a sfiorare la maniera, e che ha grande cura del lavoro attoriale e della costruzione psicologica dei personaggi. In questo caso i giovani fratelli Gyémánt, András e László, si mostrano in grado di fornire le prestazioni richieste anche se su di loro troneggia Piroska Molnár che offre una dimensione davvero straordinaria alla figura della contadina inasprita da una vita disumana. E’, in altre parole, un testo generosamente anti bellicista, cesellato sin nei minimi dettagli e attraversato da un piacevole profumo di vecchio cinema.