La sposa promessa (Lmale et Ha’Chal) è il primo lungometraggio dell’ebrea americana Rama Burshein, figura singolare di cineasta che, dopo una vita laica si è convertita all’ebraismo più ortodosso, ha diretto alcuni cortometraggi ad uso delle donne ultracredenti e ha dedicato questo suo esordio al marito, segno di una sottomissione conforme al suo credo religioso. Il film ci immerge nel mono chiudo delle comunità ultraortodosse, quelle in cui gli sposi dormono in letti separati, le donne portano vistosi copricapi, non si guarda la televisione né si ascolta la radio, la cucina è regolata da ferree regole che vogliono la separazione dei prodotti derivati dagli animali dalle carni degli stessi, gli uomini e le donne devono mantenere sempre una certa distanza, il solo lavoro deglo per gli uomini di prestigio è lo studio della Torah e si ricorre al rabbino anche per consigli sugli elettrodomestici da comprare.
In questo quadro si svolge la vita della diciottenne Shira che vive con la famiglia a Tel Aviv in attesa di maritarsi con un coetaneo del suo stesso credo. Sennonché la morte durante il parto di sua sorella sconvolge ogni progetto, spingendo la madre a gettarla nelle braccia del vedovo, ben più anziano di lei, affinché questi lasci in famiglia il neonato anziché portalo con sé in Belgio, ove lo attende una fresca vedova. Il film è preciso, quasi pedante, nella ricostruzione di questo universo a parte ove vigono regole che, viste dal difuori, possono apparire insensate. Un universo arcaico cui la regista guarda con ammirazione senza alcuna presa di distanza. L’autrice vuole usare il cinema a favore dei modi di vivere della comunità ortodossa, ha tutto il diritto di farlo, ma noi siamo altrettanto liberi di valutare il suo lavoro più come opera di propaganda che non quale elaborazione artistica.
