Michele Placido è un bravo attore e un ottimo regista, legato a modelli narrativi classici, ma molto funzionali. Nel caso de Il cecchino (Le guetteur) il modello è quello del polar, un genere tipicamente transalpino basato su una visione fredda dei rapporti fra delinquenti e poliziotti. Un’immagine in cui è difficile dividere i buoni dai cattivi, i giusti dai criminali. La scena è Parigi, qui il conflitto è fra un tiratore scelto, ex – militare in Afghanistan, passato a servire una banda di rapinatori di banche e un commissario di polizia, il cui figlio è morto nella medesima guerra asiatica.
Dopo un colpo finito in sparatoria – all’uscita dell’istituto di credito hanno trovato la polizia ad aspettarli – riescono a fuggire solo grazie ai colpi messi a segno dal cecchino che, dall’alto di un edificio, ferisce alcuni fra gli inseguitori. Quasi tutto sembra essere andato a posto, quando le cose si complicano: uno dei fuorilegge – un medico che ha curato un bandito ferito – decide di prendersi tutto il bottino e uccide uno dei rapinatori e l’avvocata che li difende. Un primo colpo di scena arriva con la scoperta che l’ex – soldato ha ucciso il figlio del commissario che lo bracca. Il giovane era impazzito e voleva uccidere nemici e civili per il solo gusto di ammazzare. Il finale è all’insegna di una rinnovata ambiguità basata sulla solidarietà virile fra il poliziotto e il tiratore, con il primo che lascia fuggire il secondo dopo che questo ha eliminato il medico assassino. La regia guida la storia con mano ferma e ne disegna i protagonisti con precisione. Ne nasce un film, forse non troppo originale ma limpido nella costruzione e nello sviluppo. Il regista mostra di saper mettere in scena con efficacia anche alcuni momenti d’azione, in particolare quelli giostrati su scontri di auto e inseguimenti. In altre parole è un testo professionalmente alto e godibile dalla prima all’ultima sequenza.