Film quasi tutto parlato in pugliese ma anche molto attentamente sottotitolato, Il grande spirito conferma il ritorno all’eccellenza di Sergio Rubini dopo un paio di titoli meno interessanti. Ambientato a Taranto con la invasiva presenza delle ciminiere bianche e rosse dell’ILVA ormai divenute tristemente parte di un panorama che racconta gli errori fatti in passato con la scusante di dare un lavoro a tutti.
Certo, gli operai non potevano capire che bomba ad orologeria fosse stata innescata – questo spettava a chi aveva dato, forse in buona fede, permessi che non dovevano essere concessi – ma ora la città è condannata ad un’esistenza difficile che la rende vittima di scelte sbagliate con un futuro drammatico: se si chiude tutto ci sarà una crisi economica e sociale difficilmente gestibile, se si lascia in funzione il numero dei malati aumenterà in maniera inaccettabile. La scelta di girare soprattutto sui tetti della città dà la possibilità di raccontare quello che succede per le strade con un certo distacco, che siano rapine o momenti rilassanti, inseguimenti o scene di apparente serenità. Il tono di questo regista è sempre triste, malinconico: il suo personaggio è un fallito di mezza età, un delinquente di basso rango che non sa convivere con la propria emotività (il soprannome a lui dato di Barboncino è legato ad una rapina fallita a causa di un cane che non ha saputo gestire), con un’amante che gli ha spillato molti soldi utilizzati per creare un Centro Estetico, con un figlio che vive di espedienti a causa del padre, con nipotini che si rifiutano di considerarlo come nonno. Molto belli anche gli altri personaggi ad iniziare da quello affidato a Rocco Papaleo in stato di grazia. Ha mille sfaccettature, non deve mai essere troppo grottesco o drammatico, è un uomo che vive nel suo mondo di fantasia che lo protegge da una realtà che non vuole o non può affrontare, si ritiene onesto indiano che mai tradirebbe chi considera amico; il suo nome è Cervo Nero. È stato ricoverato anche in un ospedale psichiatrico, ora dopo la morte del padre vive in una fatiscente casa con mille spazi segreti e con un’uscita sul tetto del caseggiato. E la casa diviene terzo personaggio che permette di nascondere, ospitare, creare amicizie: ogni cosa che viene inquadrata ha un preciso riscontro nella sceneggiatura. Perfetto nella scrittura, davvero coinvolgente nella recitazione, è un piccolo film (nel senso di budget) con grandi contenuti, splendide emozioni; è un western che si sviluppa nel degrado di una città distrutta dall’uomo. Nella periferia di Taranto il basista di una rapina ad uno strozzino, approfittando della distrazione degli altri due, ruba il malloppo e scappa. La sua corsa si svolge sui tetti per finire in una terrazza elevata e raggiungere un fatiscente appartamento dove vive uno uomo, disturbato mentale, che sostiene di chiamarsi Cervo Nero e di appartenere alla tribù dei Sioux. Il rapinatore si trova bloccato e impossibilitato a fuggire sia per una brutta ferita alla gamba, sia per il quartiere in cui lo stanno cercando almeno due bande sanguinarie. Decide di tentare di entrare in sintonia con l’uomo che lo crede inviato dal Grande Spirito e lo considera l’Uomo del Destino. Tra i due nasce un rapporto molto umano, forse l’amicizia.
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