Davanti ad ogni nuovo film del danese Lars von Trier c’è sempre difficoltà a capire quanto ci sia di sincerità artistica, e quanto di suo divertimento nel prendere in giro lo spettatore. Autore innegabilmente interessante e spesso originale, sembra volere volutamente puntare su temi scomodi: qui parla con toni elogiativi degli Stuka, ma è sul filo dell’offesa nel parlare dell’agire nazista come di qualcosa di iconico dal punto di vista della sua importanza con citazioni non malevole nei confronti di Hitler del suo fidato architetto Albert Speer di cui si fanno vedere varie opere.
Non solo, continua a realizzare film che, pur non appartenendo più al DOGMA in cui tra le tante regole c’era di girare con luce naturale, hanno come caratteristica la poca luminosità e un buio in cui è difficile intendere cosa stia passando sullo schermo. Quando sviluppa una storia, riesce ad affascinare, spesso a coinvolgere, con una costruzione drammaturgica sempre di ottimo livello. Anche la scelta di realizzare un film che dura oltre due ore e mezzo mette a dura prova la fede cinematografica degli spettatori, ma questa è una ulteriore provocazione. Ha sempre un tono da Vate che non può essere messo in discussione, ma lui stesso si ridimensiona davanti all’inarrivabile arte del pianista canadese Glenn Gould – suonava dal basso verso l’alto, come nessun altro – che propone varie volte in una clip in bianco e nero di rara carica emotiva in cui suona e canticchia musiche di Bach. Lo sviluppo a capitoli del film riesce a creare buona coerenza e una precisa cronologia a quanto accade in 12 anni dal 1970. Cinque incidenti e un epilogo, come li definisce lui, che raccontano di un ingegnere frustrato che vorrebbe riuscire a costruire la sua casa dei sogni ma che distrugge varie volte perché non soddisfatto delle forme o della resa dei materiali usati: sognava di essere architetto, invece si è dovuto accontentare. Poco per giustificare un serial killer con 61 omicidi dichiarati, ma sufficiente per Von Trier quale causa dell’inizio della lucida pazzia di un uomo dall’aspetto normale e inoffensivo che non accetta di essere considerato una nullità: la sua prima vittima – Uma Thurman – fa una brutta fine perché dapprima lo definisce come possibile killer e poi lo deride per la sua mediocrità. Durante tutto lo sviluppo delle azioni, l’assassino dialoga con un personaggio di cui non conosciamo l’identità se non nelle ultime battute: è Virgilio che diviene suo compagno nella catabasi della discesa verso l’Ade. La violenza è raccontata con tutti i particolari più raccapriccianti e vede in Matt Dillon un credibile assassino dalla crudeltà anche psicologica difficile da raccontare. Bruno Ganz, mancato a metà febbraio, interpreta con classe Virgilio nella sua amoralità di persona che non giudica. Tutti gli altri interpreti sono o poliziotti che fanno una brutta fine o donne uccise nelle maniere più efferate. Oltre a questo, La Casa di Jack è un contenitore in cui citazioni, simbolismi e la ricostruzione degli USA anni ’70 sono ulteriore pane per i cinefili.