Il film racconta degli oltre 12 anni di detenzione disumana vissuta da tre delle personalità più note dell’Uruguay contemporaneo, tra cui Mujica che alle elezioni presidenziali del 2010 appoggiato dal Fronte Ampio era riuscito a sconfiggere, grazie ad un ballottaggio, il suo avversario. Al suo insediamento si era impegnato a ridurre la povertà e continuare con le politiche d'investimento pubblico, favorite dalla buona crescita economica del Paese negli ultimi anni, oltre a migliorare i rapporti con l'Argentina.
Ma non è stato completamente positivo e – sempre appoggiato dalla formazione di sinistra Fronte Ampio – è tornato alla presidenza il medico e politico Tabaré Vázquez che aveva ricoperto la carica dal 2005 al 2010. Pepe Mujica era un uomo semplice, che è ricordato per la sua onestà e per il modo di intendere il suo mandato: era il presidente povero, perché anche quanto rivestiva quella carica continuava a vivere nella sua fattoria e a guidare il vecchio Maggiolino. Lo sviluppo narrativo senza fronzoli posto tra documentario e fiction limita l’interesse delle grosse platee, ma anche la scelta di interpreti molto validi e non particolarmente conosciuti se non nel circuito spagnolo e latino americano non avvicina il pubblico; per concludere, c’è il suo rifiuto di scendere a compromessi per ottenere maggiore gradimento. Dopo due storie di fantasia, ma che raccontano di realtà possibili, il passaggio a questo film presentato in anteprima al 75 ° Festival Internazionale del Cinema di Venezia e al Festival Internazionale di San Sebastian. Le torture fisiche sono narrate in maniera anche disturbante nella prima parte del film, per poi lasciare spazio ai maltrattamenti psicologici, ai rapporti con i carcerieri spesso solo ignoranti, per raccontare anche dell’ufficiale che, aiutato dal letterato del gruppo in una lettera d’amore, gli lascia carta e matita per potersi sentire vivo. La difficoltà di riuscire a non impazzire è raccontata in maniera molto coinvolgente, divenendo il pubblico testimone della loro lotta prima con se stessi (non bisogna accettare i fantasmi che si materializzano nella loro mente) e poi con il mondo che li circonda. I 4.323 giorni trascorsi in prigionia da queste persone per essere puniti dal essere stati Tupamaros, sono cadenzati cronologicamente raccontando cosa era cambiato o rimasto immutato nel corso del tempo. Il film documenta quanto accadde e dà l’impressione di avere un certo distacco, senza mai volere parlare di politica, dei possidenti che sapevano e potevano intervenire, anche del mondo civile che mai aveva preso una posizione decisa nei confronti dei carnefici e di chi armava loro le mani. I ribelli che subirono dal settembre 1973 in avanti sono stati 9, ed a essi è stato imposto di rinunciare alla propria identità, al rispetto per sé stessi, a vivere come esseri umani. I tre, grazie alla loro forza di carattere, hanno avuto la possibilità di rientrare da protagonisti nella vita sociale dell’Uruguay: Eleuterio Fernández Huidobro è stato Ministro della Difesa, Mauricio Rosencof ha continuato a scrivere drammi mentre José Mujica ha rivestito l’incarico di maggiore prestigio del Paese. Un momento davvero toccante è quando Silvia Pérez Cruz (anche attrice in un piccolo ruolo), interpreta una sua drammatica rilettura di The Sound of Silence di Simon & Garfunkel.