Assai interessante, per quanto riguarda il rapporto fra cultura e società, è Cold War (Zimna wojna, Guerra Fredda) del polacco Pawel Pawlikowski di cui abbiamo molto apprezzato, nel 2013, Ida. Questa volta al centro del discorso c’è una coppia di musicisti che passano dalle celebrazioni staliniste della fine degli anni Quaranta e dei primi Cinquanta, alla fuga, in tempi diversi, in Occidente.
Lui si muove per primo e approda a Parigi ove sopravvive animando un complesso jazz che suona in locali fumosi e affollatissimi. Lei lo raggiunge all’inizio degli negli anni Sessanta grazie a un matrimonio compiacente con un italiano. Vivono assieme una breve stagione d’amore, ma mal si adattano ai ritmi e alle convenzioni della vita occidentale. Lei ritorna in patria ove, grazie al clima politico parzialmente mutato, prosegue la carriera di cantante, anche se con poche soddisfazioni e molti condizionamenti. Lui, incapace di rinunciare all’amore, si riconsegna alle autorità polacche, è condannato a molti anni di prigione e rinchiuso in un lager. La cantante riesce a farlo liberare, ma per entrambi la vita è impossibile per cui l’unica soluzione è il suicidio in una chiesa di campagna diruta. Il film è girato in bianco e nero, come il precedente, e questo aggrava il senso di malinconia e tristezza che segnano quegli anni nei paesi dell’est Europa. Un film malinconico e grigio, come i colori con cui è stato girato, a cui la giuria del Festival di Cannes 2018 ha assegnato il premio per la miglior regia. La recitazione dei due attori principali è davvero ai massimi livelli a conferma delle enormi risorse artistiche di cui dispone questa cinematografia.