Uno studioso del cosmo è stato ingaggiato dall’esercito Usa per tentare un contatto con gli alieni attraverso i rumori (le voci?) che provengono dallo spazio. Piazzato nel deserto del Nevada - in prossimità della famosa area 51, una superfice più grade della Sicilia, in cui si dice che gli americani avessero stabilito nella metà degli anni cinquanta un primo contatto con gli esseri provenienti dallo spazio - il professore d’origine napoletana scruta il cielo avvalendosi di una macchina da lui progettata alla ricerca dei suoni provenienti dell’universo.
In realtà spera di risentire la voce della moglie morta da tempo, voce che lui ha inteso (o creduto di sentire) già una volta in passato. La sua vita, a suo modo tranquilla, è sconvolta dall’arrivo di due nipoti, un bambino e una ragazzina adolescente, orfani di suo fratello. Il film si snoda su due fronti: la solitudine e la malinconia del protagonista e il rapporto conflittuale con i due ragazzi che sognavano un’America tutta lustrini e piscine e si trovano in un deserto arido e spopolato. Con Tito e gli alieni Paola Randi firma il suo secondo lungometraggio, il primo è stato Into Paradiso (2010), avvalendosi della presenza di Valerio Mastandrea che dà corpo e voce a questo scienziato che non ha ancora elaborato il lutto per la perdita della compagna. Il film ha un andamento decisamente ruspante, si nota una sostanziale mancanza di finanziamenti, nobilitato da una finale che cita apertamente Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, 1977) di Steven Spielberg e, in particolare, il ruolo attoriale di François Truffaut, ma riesce ad andate oltre il ricordo dell’altra opera per diventare sia la parte migliore del film, sia uno dei momenti più riusciti del cinema italiano di oggi.