È consuetudine del cinema, americano ma non solo, di trarre dai film di successo serie anche molto lunghe, si veda il caso di Guerre stellari giusta al decimo episodio. Non desta sorpresa, dunque, il fatto che il parco giurassico posto nell’immaginario territorio caraibico di Isla Nublar e al cento della serie Jurassic Park sia diventato il presto per una serie di film.
All’inizio c’era un romanzo di Michael Crichton (1942 – 2008), pubblicato nel 1990, da cui Steven Spielberg (1946) trasse il primo Jurassic Park (1993). Arriva ora Jurassic World: Il Regno distrutto per la regia dello spagnolo Juan Antonio Bayona e la produzione esecutiva di Steven Spielberg. Nel film si gettano le premesse di un futuro episodio che coinvolga il mondo intero. Non a caso, nel finale, gli animali preistorici (divisi in buoni e cattivi) fuggono dal maestoso zoo in cui erano rinchiusi e invadono l’universo circostante. Sono arrivati sino a qui spinti dall’avidità di un trafficante assassino che antepone al profitto immediato ogni altra considerazione. Ancora una volta il regista si muove con il pretesto della condanna della sete di profitto ad ogni costo. Il cattivo di turno non solo mette in discussione la correttezza morale e ammazza l’anziano padrone dell’isola, ma allinea, nella sequenza dell’asta per l’acquisto dei pachidermi, i nemici del buon modo di vita americano (serbi bellicisti, mediorientali ambigui e via elencando). È l’immagine del politically correct secondo la versione superficiale ed opportunista della supremazia statunitense sul resto del mondo. In questo il film di allinea ai dettami del più becere opere di propaganda e mette la tecnologia al servizio di un discoro in cui l’azione fa premio sul minimo ragionamento.