Dogman di Matteo Garrone è stato il secondo film italiano in concorso al Festival di Cannes di quest’anno e ha fruttato al suo interprete, Marcello Fonte, la Palma d’Oro per la migliore interpretazione maschile. È un testo rimarchevole che prende spunto, alla lontana, dalla vicenda criminale del cosiddetto Canaro della Magliana.
Marcello è un toelettature per cani che gestisce un negozietto miserabile in una periferia degradata. Contornato da colleghi non meno scalcinati, alterna l’attività in insegna con quella di piccolo spacciatore di droga e complice occasionale di furti. Separato dalla moglie, le sue uniche passioni sono la figlia e i quadrupedi. Come i suoi vicini è angariato da Simoncino, un ex-boxeur che ha fatto della violenza una ragione di vita. Per lui ha scontato un anno di prigione rifiutandosi di denunciare il bruto alla polizia quando questi ha commesso un furto nel negozio di compra oro situato muro a muro con il suo esercizio. Quando esce di galera e è scartato da tutti gli ex – amici, per cui è costretto a chiedere al violento la sua parte di bottino ricevendone un netto rifiuto. Infuriato, gli vandalizza la moto, a cui il violento tiene più che agli esseri umani. La risposta è un pestaggio in piena regola alla presenza di tutti quelli che abitano nel quartiere. A questo punto il lava cani ha raggiunto il limite della sopportazione e reclama vendetta. Attira Simoncino in una trappola, lo strangola e ne brucia il cadavere. È un film di gande forza immerso in un’atmosfera piovosa e cupa del tutto consona ai caratteri dei personaggi che mette in scena. Non è solo la storia della vendetta di un umile nei confronti di un prepotente, è anche il quadro drammatico di una condizione umana abbruttita oltre il limite della bestialità. In altre parole, un film importante, stilisticamente molto elaborato che si colloca ai massimi vertici del nostro cinema.